Amiche ed Amici carissimi, è con grande piacere che affronto un tema a me particolarmente caro: la sensibilità. A tale proposito è con noi il Dott. Nicola Ghezzani – Psicologo Clinico – Psicoterapeuta – Formatore alla Psicoterapia – Presidente della Società Italiana di Psicologia Dialettica e Autore di numerosi libri.

Nel linguaggio comune si conferisce al termine “sensibilità” un’accezione piuttosto generica, limitata alla fragilità caratteriale, all’enfasi emotiva e alla reazione episodica di fronte agli avvenimenti. Nel libro, dall’emblematico titolo “Il dramma delle persone sensibili” – Ed. Franco Angeli -, il Dott. Ghezzani descrive i fattori sottostanti al fenomeno esteriore, ascrivibili ai caratteri genetici e neuropsicologici della persona sensibile.
“Il dramma delle persone sensibili” costituisce un’affascinante opera orientata all’abbattimento del pregiudizio di fragilità e fortemente orientata all’inclusività delle caratteristiche neuropsicologiche individuali, e infine dimostra la ricchezza intrinseca alla neurodiversità.
Daniela Cavallini:
Bentornato Dott. Ghezzani e grazie per essere nuovamente con noi.
Ne “Il dramma delle persone sensibili”, Lei descrive le più intime sensazioni dell’essere umano, considerandone l’unicità esperienziale e confutando il principio egualitario.
Dott. Nicola Ghezzani:
Nel libro esprimo il concetto che il “principio egualitario” rappresenti un danno all’organizzazione sociale e un limite al pensiero scientifico. Il principio egualitario é un pregiudizio come un altro. Questo pregiudizio afferma che nasciamo tutti uguali e siamo diversi solo allorché abbiamo qualcosa “in meno”, cioè siamo malati, siamo disabili, siamo mutilati, ecc. Oggi siamo in grado di dimostrare che si può parlare di diversità non solo quando si ha qualcosa “in meno” ma anche quando si ha qualcosa “in più”, e possiamo dimostrare che il campo della psicopatologia é in buona parte costituito da individui che possiedono qualcosa in più. La conseguenza di ciò è che il principio egualitario cessa di essere valido e con esso l’intera visione del mondo egualitaria, con tutto quello che ne consegue.
Come possiamo confutare il principio egualitario? Rivolgendoci a una scienza matura: la biologia. Di fatto, in biologia la diversità è la norma. Se è vero, infatti, che ogni specie risponde a una norma standard, è però altrettanto vero che alla luce dell’evoluzionismo ogni individuo è una variante, è cioè diverso da chiunque altro, e si adatta al mondo secondo le sue peculiari caratteristiche. La vita biologica procede generando continue differenze. A ben vedere però anche le popolazioni umane producono differenze: diversi fra loro sono sia gli individui che le categorie e i gruppi; ed è proprio grazie allo scarto differenziale fra le minoranze e le maggioranze che un sistema sociale evolve e cambia. Se non vi fossero differenze, tutti i mondi sociali sarebbero immobili.
Affermare che siamo tutti uguali implica sottintendere che il sistema sociale, una volta raggiunta la perfezione, cioè la democrazia, non cambierà. Ma la democrazia è esattamente l’opposto! Ammettere che siamo l’uno diverso dall’altro implica la regola che la società debba essere oggetto di continua ridiscussione, quindi che proprio in un sistema democratico, tutto possa e debba essere soggetto a un continuo cambiamento.
Daniela Cavallini:
Nella Sua puntuale disamina, esplicita la rilevante differenza tra sensibilità e vulnerabilità che, sono spesso – e come vedremo impropriamente – considerati sinonimi. Inoltre, valuta ed annovera un ulteriore aspetto ad esse correlato: “l’alta sensibilità”.
Dott. Nicola Ghezzani:
Il concetto di “alta sensibilità” introduce in psicopatologia una variabile epistemologica ad alto impatto conflittuale, dissimulato appena dal fair play del linguaggio accademico.
Una conseguenza non indifferente – e decisamente liberatoria – delle nuove ricerche è il drastico cambiamento di linguaggio: nei testi scientifici si evita ormai il termine “vulnerabilità” (definizione in negativo), e si preferiscono termini come “permeabilità”, “plasticità”, “sensibilità biologica”. Ma la novità non riguarda solo il linguaggio.
Fino a qualche anno fa, la ricerca psichiatrica era focalizzata su un solo modello di analisi: il modello della vulnerabilità. All’interno di questo modello, il primo dei fattori di rischio psicopatologico era individuato nella cosiddetta “vulnerabilità”, intesa come deficit di resistenza – e di resilienza – all’impatto di influenze ambientali negative; si trattava di una scelta arbitraria basata sull’idea che chi ammala nella psiche abbia qualcosa in meno degli altri, qualcosa che a livello psicologico può essere definito appunto come “vulnerabilità”: un particolare tipo di fragilità neuropsicologica di natura genetica. Secondo questo modello, i bambini che nascono vulnerabili sono più sensibili di altri a condizioni ambientali avverse, quali la relazione con un genitore maltrattante o trascurante e particolari eventi traumatici (i cosiddetti “fattori di stress”). Al contrario, altri bambini, più solidi e resilienti, in presenza di condizioni ambientali sfavorevoli sono in grado di ammortizzare i fattori negativi restando sostanzialmente integri. Nel modello di ricerca che ha finora prevalso, due “razze” infantili si confrontano sul terreno sulle asperità della vita: una normale, dunque meno sensibile e più solida; l’altra anormale, fragile, impressionabile, facilmente traumatizzabile.
Ma poiché si tratta di visioni del mondo, quindi di pregiudizi, possiamo organizzare i dati in modo diametralmente opposto. Secondo i ricercatori dissidenti, il modello di ricerca basato sul concetto di vulnerabilità è superato: commette il grave errore di non valutare gli esiti che quegli stessi bambini definiti “vulnerabili” presentano in condizioni ambientali favorevoli. Pertanto, per avere risultati i più oggettivi possibile occorre allargare la ricerca e prendere in esame lo sviluppo dei soggetti vulnerabili non solo in contesti negativi, ma anche in contesti positivi. Quanto emerge da queste nuove ricerche dimostra che il bambino di temperamento “difficile” risulta permeabile al contesto sia in senso disadattivo, quindi di svantaggio, sia in senso adattivo, quindi di vantaggio (Belsky e Pluess, 2009).
In sintesi, non appena si offre al bambino un ambiente positivo, il cosiddetto “fattore di vulnerabilità” si rivela essere, in realtà, un “fattore di plasticità”, favorevole allo sviluppo di potenzialità fuori della norma. Insomma negli ambienti positivi i bambini sensibili non solo maturano in modo normale, ma vanno oltre e sviluppano qualità eccellenti. Secondo questi studi, i bambini cosiddetti “difficili” sono i maggiori beneficiari di un ambiente positivo, qual è ad esempio l’esperienza di un genitore sensibile e di un ambiente accogliente (Juffer, Bakermans-Kranenburg e van IJzendoorn, 2008).
Daniela Cavallini:
A tale proposito, Lei esemplifica quanto asserito riferendo una metafora di intrinseca ed esplicativa delicatezza: “Bambini come fiori”, proposta da Boyce ed Ellis (2005), nel cui ambìto si descrivono gli esiti di sviluppo di due piante: il tarassaco e l’orchidea, cui si aggiunge il tulipano e la Sua arricchente immagine del narciso. Questo costituisce un valido aiuto per i genitori oltreché per gli insegnanti, deputati alla formazione a partire dalla prima infanzia, affinché possano cooperare nel crescere i bambini coerentemente con le loro personali inclinazioni.
Dott. Nicola Ghezzani:
Sapevo l’avrebbe apprezzata e ne parlo volentieri.
Il tarassaco o “dente di leone” è una pianta che cresce anche in terreni incolti e non richiede cure per fiorire. Si tratta perciò di un fiore resiliente. Al contrario l’orchidea, se collocata nello stesso terreno incolto, tende ad appassire: secondo il vecchio modello potremmo definirla una pianta “vulnerabile”.
Le cose cambiano se allarghiamo il focus di osservazione e includiamo ciò che accade in un contesto positivo, ossia un terreno ottimale. Ebbene, piantato in un terreno ricco e caldo, il dente di leone non trae beneficio più di quanto non faccia nel terreno incolto: il suo sviluppo è identico, segno che ha dato fondo al suo potenziale genetico. Al contrario, piantata anche lei in un terreno ottimale, l’orchidea presenta uno splendido sviluppo. Dunque, le due piante hanno diversa plasticità, minore per la prima, maggiore per la seconda, più permeabile a contesti sia negativi sia positivi. Se avessimo osservato solo le orchidee appassite avremmo dedotto la loro inferiorità genetica rispetto ai denti di leone. Ma l’analisi di entrambi gli ambienti e il confronto tra i diversi esiti di sviluppo permette di capire che le orchidee non sono inferiori, cioè più vulnerabili, sono solo adattate al loro contesto e lì esprimono tutte le loro qualità.
La metafora serve a Boyce ed Ellis per identificare una tipologia infantile, i “bambini orchidea”, bambini dotati di maggior reattività fisiologica che, qualora siano collocati in un ambiente negativo, stanno male e hanno uno sviluppo alterato; ma se invece sono collocati in un contesto positivo, presentano uno sviluppo ottimale, ricco di straordinarie possibilità evolutive.
I ricercatori sono però andati oltre e accanto ai “bambini orchidea” e a quelli “dente di leone” hanno individuato una tipologia caratterizzata da alta permeabilità ai soli contesti positivi e poco permeabili ai contesti negativi. Non danneggiati se vivono n ambienti ostili, negli ambienti favorevoli questi bambini danno il meglio di sé (Belsky e Pluess, 2013). I ricercatori li hanno chiamati “bambini tulipano”. Il tulipano è il fiore di una pianta bulbosa che possiede l’attitudine a resistere al freddo e fiorire a primavera. Secondo Elaine Aron e i suoi collaboratori, i bambini tulipano sono caratterizzati da media sensibilità e costituiscono il 40% della popolazione infantile.
Personalmente, ho l’impressione che esista una quarta tipologia di bambini, ancora più singolare, che chiamerei “bambini narciso”. Perché ho scelto il fiore del narciso? Ebbene, il narciso, come il tulipano, è una pianta bulbosa che dorme l’inverno per svegliarsi in estate; ma in più, il suo nome, di origine greca, allude ai temi della narcosi e del sonno. La mia esperienza clinica mi ha a pensare che esistano alcuni bambini, dotati di un’alta sensibilità, che dispongono di un altrettanto alta immaginazione previsionale che attiva in loro unadifesa precoce. In una prima fase essi mostrano un’intensa percezione dell’inconscio altrui, testimoniata, anche da adulti, da sogni e ricordi remoti di altissima intensità. Poi, qualora questa prima percezione li faccia sentire minacciati, i “bambini narciso” attraversano l’infanzia in una sorta di riposo vegetativo, cioè di letargo. Talvolta appaiono calmi e distaccati; altre volte appaiono socievoli e vivaci; ma più intimamente la loro coscienza ha operato una rimozione selettiva dei contenuti più intensi dell’inconscio interpersonale e sociale. Essi continuano a percepire l’inconscio altrui, coi suoi turbamenti e le sue minacce, ma questa percezione resta confinata nell’inconscio, non alterando l’andamento delle loro vite, retto dalla coscienza.
Ebbene, l’ipotesi che avanzo è che la difesa che i “bambini narciso” mettono in atto rispetto alla vita psichica altrui si realizzi mediante l’inattivazione dei neuroni specchio, funzionali a registrare l’inconscio profondo relazionale. Allora, come Narciso, l’inconscio di questi bambini si addormenta, difendendoli in tal modo dall’inadeguatezza e perversità dell’ambiente. Possono sembrare bambini senza inconscio; ma è una mera apparenza: essi agiscono come quelle piante bulbose – tulipani, gigli, narcisi – che l’inverno riposano, accumulando risorse per fiorire con la stagione calda.
Alcuni ricercatori – a partire da Elaine Aron – fanno l’ipotesi che gli esseri umani differiscano nel grado di permeabilità all’ambiente per una motivazione evoluzionistica connessa alla sopravvivenza della specie. Gli individui dotati di maggiore permeabilità, ossia di sensibilità, cresciuti in un contesto positivo non solo sono sani, ma riescono a distinguere gli stimoli in maniera più sottile, quindi, per esempio, a riconoscere e fronteggiare con più rapidità eventuali pericoli. L’adulto che nasce da questi bambini è più percettivo, analitico, attento ai dettagli, quindi avverte il gruppo dell’esistenza di novità, opportunità, minacce che altrimenti passerebbero inosservate. A queste qualità, osservate da Elaine Aron, io aggiungo la tendenza a percepire con alta intensità il mondo psicologico altrui, non solo umano ma anche animale e naturale (empatia) e a elaborare i ricchi contenuti del proprio mondo interiore (introversione).
Daniela Cavallini:
Dunque, questa nuova visione, sovverte il criterio di vulnerabilità, sostituendone l’accezione negativa ed associandolo ad una differente sensibilità/reattività all’influsso ambientale che ricondurrebbe ancora una volta al principio non egualitario?
Dott. Nicola Ghezzani:
Secondo il vecchio modello, il disturbo psichico è originato dalla vulnerabilità, cioè un deficit genetico che induce lo stato di malattia. Il nuovo modello consente di osservare invece che il disturbo è sì associato a una diversa costituzione psichica, ma la diversità evidenziata non è la vulnerabilità, bensì la reattività (come la chiama Jerome Kagan, 2010) o, meglio ancora, la plasticità, ossia la sensibilità all’influsso ambientale. Ebbene, il bambino sensibile presenta esiti deficitari solo se cresce in un ambiente inadeguato o ostile; ma al contrario, sviluppa una personalità altamente empatica e intelligente laddove cresca in un ambiente adeguato. Insomma, il disagio psichico nasconde e talvolta purtroppo deteriora qualità mentali fuori del comune.
Daniela Cavallini:
A conclusione di questa dettagliata e preziosa intervista, nel ringraziarLa desidero riportare il Suo pensiero conclusivo inerente alla sensibilità…
Dott. Nicola Ghezzani:
Che la sensibilità sia una qualità implicita in gran parte delle persone che sviluppano un disagio psichico è una mia convinzione di vecchia data, che ho illustrato in varie pubblicazioni: tuttavia, le qualità che maggiormente identificano la sensibilità sono la percezione analitica, l’attenzione al dettaglio, la densità nel processare le informazioni, l’attenzione empatica al mondo psichico altrui, il dolore morale di fronte all’ingiustizia. Una percezione e un’elaborazione che coinvolgono l’intera unità psicosomatica (il corpo e la mente) come riflesso di un cervello estremamente vigile.
Io penso che il patrimonio genetico individuale determini la maturazione di diverse iperfunzioni mentali, non di una sola (anche se“sensibilità” è una parola-chiave di forte impatto emotivo). Ne “Il dramma delle persone sensibili” ne ho citate sette: prassia (o operatività), sensibilità, emozionalità, empatia, immaginazione, creatività e autocoscienza. Penso inoltre che le iperfunzioni emotive non siano solo armoniche ma anche conflittuali. Esse implicano l’attenzione partecipe ai simili, agli altri esseri viventi e al pianeta, ma anche sentimenti di conflitto quali – ai livelli più elementari – l’angoscia e la rabbia morale, la protesta e il dissenso oppositivo, e – ai livelli più complessi – il pensiero critico, la selezione dei valori, l’originalità creativa, lo sviluppo di nuove visioni del mondo e l’individuazione di sé come agente di trasformazione dell’esistente e di mutazione culturale
In sostanza, l’individuo iperfunzionale, come singolo e come rete, dispone di un potenziale di godimento della vita, di dissenso critico e di cambiamento della realtà materiale che l’incomprensione ambientale e il malessere personale possono bloccare. Penso che i disturbi psichici – al netto di quelli che insorgono per manifesto abuso ambientale – siano l’espressione di un mancato dispiegamento di questo ricco potenziale emotivo e intellettivo; inoltre, che il mancato dispiegamento dipenda non tanto da un (possibile) “effetto soglia” (cioè troppi geni positivi simultaneamente), quanto da un difettoso maneggiamento da parte dell’ambiente.
Dunque, il “nevroticismo”, che la psicologia americana attribuisce all’“alta reattività” nervosa, non è il tratto genetico originario; è bensì la “degenerazione” di un corredo genetico predisposto all’iperfunzionalità, dotato di una ridondanza funzionale – quindi di una ricchezza psichica – superiore alla media.
La mente delle persone sensibili, empatiche e immaginative è meno specializzata delle menti comuni, ma è molto più ricca di ridondanze funzionali, cioè di possibilità sia emotive che intellettive. Ed è proprio la gestione personale e ambientale di questa ricca dotazione psichica che produce i benefici, ma anche i guai che conosciamo.
Daniela Cavallini
