Il film: La Tigre Bianca di Ramin Bahrani | Recensione di Caterina Civallero

da | 03 Agosto 2024 | Cinema

Per la seconda volta ho guardato con piacere un film che mi aveva suggerito Andrea Giostra qualche tempo fa e l’ho trovato straordinario come ricordavo.

Ecco alcune mie riflessioni riguardo il ruolo del protagonista Balram Halwai e la sua storia sviluppate unitamente a un’accurata analisi dei vari personaggi.

Già da quando Balram è solo un bambino emerge la grande differenza fra le sue ambizioni e quelle della sua famiglia: lui nasce e cresce in un tessuto connettivo denso e pronto a fornirgli il potenziale di una grande trasformazione. La sua pelle è pronta a diventare come il pregiato mantello di una tigre bianca, ma perché ciò accada sarà necessario tirar fuori le unghie e imporsi alla vita.

La silente spaccatura che si evidenzia fra ciò che Balram pensa e desidera e cosa la sua famiglia si aspetta da lui avrà un ruolo determinante durante tutto il film.

Il Padrone che tiene sotto scacco il villaggio in cui vive si reca regolarmente presso i suoi genitori per ritirare il denaro che estorce con la forza. Durante una di quelle visite Balram scopre che i debiti del padre verso il Padrone gli impediranno di potersi recare a scuola, nonostante fosse stato stabilito che le sue doti sono adatte per sviluppare una buona cultura.

Così il destino di Balram devia e il suo braccio si trova metaforicamente ammanettato al chiosco del padre malato, dove lui cresce lavorando nel retro spaccando sassi.

Un giorno lo strozzino ritorna e con lui sono presenti entrambi i suoi due figli: uno è detestabile come il padre, l’altro, che si chiama Ashok, cresciuto negli Stati Uniti e ritornato in India per seguire le orme di famiglia, affascina con i suoi modi affabili il giovane Balram che farà di tutto per diventare il suo autista.

Una volta ottenuto il posto, nel tempo, da fedele servitore si avvicina alla psicologia contorta dei suoi padroni e nel tentativo di comprenderla si trova coinvolto in un incidente d’auto mortale, causato dalla moglie ubriaca di Ashok ai danni di una bambina.

Per servire i suoi padroni Balram si offre di coprire l’accaduto, ma la famiglia di Ashok desidera la certezza del suo silenzio e lo obbliga a firmare una dichiarazione in cui si lui fa carico totalmente della responsabilità dell’incidente.

Non appena scrive il suo nome sul contratto che condannerà a morte sia la sua famiglia che quella di Ashok, la sua anima gli si rivolta contro e, quando ha ben chiaro che un’altra manetta è scattata sull’unico suo polso libero, si trova inchiodato a una croce che non vuole portare.

Credo che questo sia un punto nodale dell’intera vicenda. È da qui in poi che Balram costruisce la sua resurrezione e, poiché non nasce destinato a diventare Cristo, le strade che percorrerà per rinnovarsi sono fatte di polvere e sangue, onestà e corruzione, cinismo e fede, e sincerità e menzogna allo stesso tempo.

Balram è irreversibilmente diviso in due: è legato alla sua famiglia e al suo villaggio e ha venduto l’anima alla famiglia dei suoi padroni. Sullo sfondo le pretese in denaro da parte della nonna e la scadenza di un matrimonio combinato, ma indesiderato che si avvicina, saturano il suo livello di sopportazione; il gioco si compie e Balram agisce per liberare la sua vita.

Paragonarla a quella dei polli in una stia[1] che abituati alla prigione accolgono il loro destino senza ribellarsi, mi permette di ipotizzare che la trasformazione di Balram avvenga con la lucidità di un’aquila che porta in vetta la preda e la porta nel suo nido per poi sbranarla.

Ma il titolo del film vuole mostrare quanto sia raro che un indiano di bassa casta possa rivoltarsi contro un sistema, e non tener conto della possibilità che il proprio popolo possa ribellarsi è un grave errore per la famiglia di Ashok, che muore per mano di Balram che lo colpisce alla schiena, forse per non doverlo guardare in volto mentre compie la scelta di liberarsi dal suo stato di povertà e schiavitù.

Quando Ashok è a terra morente, disarmato da quella boria che gli permetteva di decidere del futuro altrui, allora Balram lo volta e gli recide la carotide con il coccio di bottiglia che ha scelto di impugnare per farsi giustizia.

Quel taglio, per mio conto, sentenzia il momento preciso in cui Balram stacca i contatti con la nonna e il suo villaggio. Lì, in quel preciso momento, Balram è solo Balram, ed è solo.

La successiva decisione di appropriarsi del nome dell’uomo che ha ucciso, per crearsi una nuova identità, è strategica da un lato perché ha la finalità scaramantica e simbolica di garantirgli il successo economico e l’appartenenza di casta che vuole raggiungere, ma nel ricordargli permanentemente il crimine che ha commesso lo pone di fronte alla quotidiana scelta di decidere quale uomo essere.

Balram agisce in nome di Ashok mantenendo sempre l’onore dell’uomo povero che fu.

Questa storia è straordinaria in molti dei suoi passaggi; non so quanto fedele il regista Ramin Baharani sia stato nei confronti del romanzo di Aravind Adiga da cui è tratta, ma ho la percezione che abbia fatto il possibile per rispettarne ogni suo particolare trasponendola cinematograficamente.

Negli occhi di Balram diventato Ashok vedo comunque l’arguzia di un rapace e mi riservo il tempo per comprendere la sacralità che La tigre bianca, scelta per il titolo, ha per il popolo indiano.

Il film mostra che, quando sono presenti tutti gli elementi per agire, l’uomo agisce. Il cambiamento richiede reazione, cambio di direzione e deve essere sostenuto e catalizzato da eventi straordinari. La miscela per la rinascita è come sempre multifocale.

La tigre bianca” su Netflix

https://www.netflix.com/it/title/80202877

Scheda IMDb

https://www.imdb.com/title/tt6571548

Trailer su YouTube

CATERINA CIVALLERO Consulente alimentare, facilitatrice in Psicogenealogia junghiana, scrittrice

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[1] Tratto dall’articolo di Andrea Giostra Il Sicilia: «La cosa più grande che questo paese abbia creato nei suoi dieci mila anni di storia, è la stia per polli. Vedono e sentono l’odore del sangue, sanno che toccherà anche a loro, eppure non si ribellano, non provano a scappare dalla stia. Qui i servitori sono stati cresciuti per comportarsi così. I mobili che porta quell’uomo varranno almeno due anni di stipendio, ma lui fedelmente li porterà con i soldi al suo padrone, non toccherà mai una singola rubia. Nessun servitore lo fa, perché gli indiano sono i più onesti e spirituali al mondo? No! È perché il novanta nove virgola novanta nove per cento di noi è intrappolato dentro la stia per polli. L’affidabilità dei servitori è così potente che potresti mettere la chiave dell’emancipazione nella mano di un uomo e te la rilancerebbe con tanto di maledizione.»

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