Quali sono le modifiche che subiscono gli alimenti durante la cottura?

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Cosa accade cuocendo gli alimenti in maniera sbagliata?

II caldo o, più esattamente, quella forma di energia che si chiama calore, ha un’enorme influenza sui cibi; basta pensare che li cuoce… Ma cos’è la cottura? Come si è detto poco fa, quando si « mette su » un pezzo di carne ad arrostire o quando si fa friggere un uovo neppure ci si immagina quanto complesso sia il processo di cottura: cucinare è un fatto talmente ovvio e naturale! Invece l’argomento è affascinante, e merita qualche pagina.

II caldo o, più esattamente, quella forma di energia che si chiama calore, ha un’enorme influenza sui cibi; basta pensare che li cuoce… Ma cos’è la cottura? Come si è detto poco fa, quando si « mette su » un pezzo di carne ad arrostire o quando si fa friggere un uovo neppure ci si immagina quanto complesso sia il processo di cottura: cucinare è un fatto talmente ovvio e naturale! Invece l’argomento è affascinante, e merita qualche pagina.

COS’È E A COSA SERVE LA COTTURA
Cerchiamo, innanzi tutto, di dare una definizione un po’ precisa al termine corrente di cottura: lo potremo meglio definire come un trattamento termico (dal greco « thermos », che significa « caldo ») effettuato secondo un determinato ciclo, per un certo tempo, in modo da far toccare temperature più o meno elevate al materiale da « trattare » per tempi più o meno lunghi. Gli scopi di tutto ciò, vale a dire gli scopi della cottura, sono fondamentalmente due: rendere più facilmente digeribili i cibi, e renderne più gradito il sapore.

A causa del riscaldamento più o meno prolungato si ottengono effetti diversi e differenziati: ma gli effetti fondamentali della cottura sono comunque alcune trasformazioni dell’alimento. Diverse di queste trasformazioni sono rapide, appariscenti, facilmente individuabili. Le albumine contenute in un uovo (il bianco d’uovo) al di sopra dei 60 gradi centigradi coagulano in maniera irreversibile (cioè dopo cottura, raffreddate, non ritornano allo stato primitivo ma rimangono nel nuovo stato). Il comune zucchero, definito chimicamente « saccarosio », allo stato puro, cristallino, come viene messo in commercio, fonde a 160 gradi, ma, se viene portato oltre i 200, si trasforma in quella massa bruna, amorfa, non più cristallizzabile, chiamata « caramello ». La struttura di sostegno di molti vegetali (insalata, spinaci, sedano, e simili) subisce, in seguito a semplice bollitura, un vero collasso, accompagnato da un’imponente perdita d’acqua. Tale collasso da risultati ben visibili: i materiali fibrosi di sostegno vengono « rotti », per cui il tutto diviene più morbido, facilmente deformabile; il volume globale diminuisce fortemente.

Si verificano però, contemporaneamente, altre modifiche, non facilmente visibili ma essenziali proprio per la funzione di dare maggiore digeribilità ai cibi. Per esempio, in molti prodotti vegetali (farine, patate, legumi, pasta alimentare, riso eccetera) si hanno elevati contenuti di amidi, i quali, in seguito a riscaldamento sufficientemente prolungato, e a una temperatura adeguata, si trasformano in polisaccaridi, e cioè in « catene di zuccheri », di struttura assai più semplice di quella degli amidi d’origine. Spetterà poi al nostro organismo la trasformazione, cioè la « degradazione » successiva dei polisaccaridi a zuccheri ancora più semplici, mediante l’azione della saliva e dell’acido cloridrico dello stomaco. Nelle carni, essendo presenti principi nutritivi di differente tipo che nei vegetali, le trasformazioni chimiche ottenute mediante la cottura sono diverse: sono più numerose e complesse, anche limitandosi a delinearne le principali. Anche per la carne si ha una parziale demolizione della struttura di sostegno (meno spinta che nei vegetali), una perdita d’acqua, una coagulazione delle albumine (coagulazione che altrimenti dovrebbe essere operata entro lo stomaco), una degradazione parziale delle molecole proteiche ad amminoacidi. I grassi contenuti nella carne (e quelli che vengono aggiunti quando la carne stessa viene arrostita), subiscono processi (idrolisi, ossidazione), nel corso dei quali molecole lunghe si spezzano in molecole più semplici, in modo da favorire la digeribilità. Nel corso di una cottura prolungata, però, durante la quale vengono raggiunte in certe zone temperature elevate (caso tipico: l’arrosto a fuoco lento di un pezzo di carne in casseruola, con aggiunta di grassi di varia natura), un certo numero di molecole dei grassi, invece di scindersi, subisce il processo inverso: la polimerizzazione, che è appunto l’unione di più molecole con la formazione di molecole più lunghe e complesse di quelle originali. Altre trasformazioni chimiche danno luogo a prodotti carboniosi (nerastri, amarognoli) non digeribili.

Questo spiega quanto è noto in proposito da secoli in medicina, e cioè che i « grassi cotti » sono in complesso meno digeribili dei « grassi crudi ». A chiunque soffra di disturbi di stomaco, fegato o intestino, viene sempre raccomandato di ingerire ne « grassi cotti » (specialmente fritti) ne cibi preparati mediante processi di cottura prolungati. (E allora: in quale tipo di grasso cucinare i fritti, affinchè siano meno pesanti e meno dannosi? Evitare lo strutto e la sugna anche se quest’ultima frigge — « purtroppo » in modo meraviglioso… — chiacchiere e frittelle, nonché il grasso di rognone di bue, ritenuto da alcuni rinomati cuochi il grasso migliore per friggere la carne; e usare invece i grassi vegetali. Il burro è l’unico grasso animale che si può mangiare crudo, naturalmente se è di buona qualità e freschissimo: contiene infatti vitamina A e vitamina D; tuttavia, è meglio adoperarlo per condimenti e non per friggere, perché annerisce in fretta e fa scurire il cibo che state friggendo. Per friggere, in definitiva, non c’è grasso migliore dell’olio, che, prima di bruciarsi, porta la temperatura a calore molto elevato. Esiste una vasta gamma di oli vegetali, a parte anche l’olio di oliva, che è meglio conservare per le insalate fresche e per le verdure cotte: ma gli oli di semi, di arachidi, di semi di soia, di germe di grano sono l’ideale per friggere.

È stato inoltre persino individuato l’insorgere, nel corso di cottura ad alta temperatura, di composti ad azione cancerogena; tuttavia non ha mancato di gettare un’ombra di immeritata impopolarità sulle bistecche alla griglia e sugli arrosti alla fiamma o alla brace (barbecue). La variazione del sapore, altrettanto tipica del processo di cottura quanto la funzione di maggior digeribilità dei cibi, è conseguenza diretta di questi complicati processi, ed al tempo stesso di processi collaterali ma non per questo meno importanti. Praticamente sempre, nel corso della cottura, si aggiunge il sale, il quale, essendo igroscopico, favorisce la perdita d’acqua della carne o dei vegetali nel corso della cottura e contemporaneamente viene più o meno profondamente assorbito. Si aggiungono poi quasi sempre elementi, di solito vegetali, che hanno un particolare aroma o un particolare sapore, e che vengono a loro volta assorbiti più o meno profondamente, dopo essersi liberati, sciolti e diffusi nel recipiente di cottura in conseguenza del riscaldamento. In molti casi si tratta di oli essenziali, contenuti nella buccia di arance, cedri e limoni, in altri casi si tratta di oli essenziali e aromi contenuti in foglie, semi, frutti di piante diverse.

Nel corso della cottura, il cibo, di origine vegetale o animale, perde, oltre all’acqua, quantitativi diversi di sostanze che conteneva all’origine: nel caso della bollitura, esse si trovano quasi al completo nel cosiddetto « brodo »; nella cottura per arrostimento o in forno, in parte si ritrovano nel cosiddetto « sugo » o nella crosta esterna di quanto è stato cotto (e che appunto per questo, in molti casi, sono, sia il sugo sia la crosta, particolarmente saporiti), ed in parte vanno perdute. Chiunque, entrando in un ambiente ove carni e vegetali sono in fase di cottura, a meno che questa non si svolga entro un forno a chiusura ermetica, avverte sotto forma di « odore » questi effluvi, e, nella maggior parte dei casi, se si tratta di un esperto, ne individua immediatamente l’origine. Approfondire l’argomento dal punto di vista fisico, della cottura chimico e biochimico sarebbe assai interessante, addirittura affascinanate. Ma richiederebbe molto spazio, un linguaggio scientifico piuttosto difficile e, soprattutto, non aiuterebbe in maniera pratica chi volesse perfezionarsi nella tecnica della cottura dei cibi onde ottenere in cucina risultati di buon livello. A tale scopo, converrà piuttosto soffermarsi sulla « tecnica della cottura » vera e propria: e cioè sui mezzi e sui sistemi da usare nel sottoporre a cicli di riscaldamento, differenziati ed in diverse condizioni-ambiente, gli alimenti allo stato grezzo, onde trasformarli in « piatti » gradevoli, saporiti, muniti di una precisa individualità e il più possibile costanti nelle loro caratteristiche.

CALORE E TEMPERATURA
Per prima cosa, occorre spendere qualche parola sul calore, sui sistemi per generarlo e trasmetterlo, nonché sulla temperatura, concetto che con quello di calore viene spesso confuso. Il calore è una forma di energia, che si ottiene, negli usi di cucina, mediante reazioni chimiche (combustione) di materiali diversi (gas, legna, carbone, idrocarburi liquidi), oppure trasformando in calore energia elettrica. La « quantità » di calore in gioco si misura in calorie o in kilowattore: nel primo caso, quando si utilizzi un combustibile; nel secondo, quando si trasformi energia elettrica in calore. Le due unità di misura, pur essendo quantitativamente diverse, sono omogenee e convertibili l’una nell’altra; si usa l’una piuttosto che l’altra per ragioni tecniche, per comodità, o semplicemente per tradizione (1 kilowattore equivale a 860 chilocalorie, 1 chilocaloria a 0,016 kilowattore; una caloria è la quantità necessaria a innalzare da 14°5 e 15°5 un grammo di acqua distillata, la chilocaloria è la quantità che innalza della stessa temperatura un litro d’acqua). Questo « consumo » di energia si traduce in una corrispondente « spesa », in quanto l’energia ha sempre un costo. Chi usa una cucina elettrica paga ciò che vi ha consumato, e che è segnato dal contatore. Chi usa il gas lo paga un tanto al metro cubo, e può sempre documentarsi sul numero di calorie sviluppate da ogni metro cubo di gas bruciato. Mentre dunque il calore è una forma di energia, la temperatura può definirsi uno « stato fisico della materia ». Ora, per poter ottenere con la cottura determinati risultati, occorre:

• 1 ) portare il cibo ad una certa temperatura (mediante somministrazione di energia per « riscaldarlo »);

• 2) fornirgli poi per tutta la durata della cottura altro calore (altra energia).

Queste due esigenze rispondono a due motivi. Il primo è che, al di sotto di certe temperature, i processi essenziali per la cottura non si svolgono. Abbiamo più sopra citato il limite dei 60 gradi per la coagulazione delle albumine dell’uovo, ed il limite dei 200 gradi per la trasformazione dello zucchero in caramello: anche somministrando ingenti quantitativi di calore ad un uovo, ma in condizioni tali da non fargli raggiungere i 60 gradi di temperatura, o ad un chilo di zucchero senza fargli toccare i 200 gradi, e pur prolungando i trattamenti per giorni e giorni, non si verificherebbero ne la coagulazione ne la trasformazione in caramello. (Per contro, se la temperatura è troppo elevata, il cibo in fase di cottura si degrada, carbonizza o addirittura brucia).

Il secondo è che occorre compensare il calore che va smarrito nell’ambiente, ad opera dei recipienti entro i quali avviene la cottura e ad opera della massa stessa del cibo in fase di cottura; nonché compensare il calore assorbito dai processi chimico-fisici che caratterizzano la cottura vera e propria. Nel caso tipico della pentola che bolle, dopo raggiunta la temperatura di ebollizione, occorre poi continuare a somministrare notevoli quantitativi di calore, in quanto il processo stesso di ebollizione assorbe calore ed in quanto una pentola calda disperde molto calore nell’ambiente. Invece nel caso di un forno moderno, elettrico o alla fiamma, una volta raggiunta la temperatura di cottura voluta, basta, per mantenerla, somministrare modesti e misurati quantitativi supplementari di calore, in quanto le dispersioni nell’ambiente sono limitate.

Nei processi di cottura ancora in uso (per esempio nelle isole del Pacifico) si opera entro fosse scavate nel terreno e ricoperte con foglie ed altro terriccio. Il calore viene somministrato tutto all’inizio, gettando nella fosse, assieme al cibo, ciottoli arroventati. Non è poi necessario somministrare altro calore, in quanto le perdite di calore dalla fossa al terreno che la delimita sono modestissime, per cui il cibo raggiunge rapidamente una temperatura massima, largamente sufficiente per avviare la cottura; tale temperatura, anche dopo diverse ore, risulta diminuita solo di qualche decina di gradi. In Sardegna è ancora in auge la cottura in una buca scavata nel terreno, riempita di ciottoli arroventati, sui quali si mette il cibo. e ricoperta di foglie e altro terriccio. Questo sistema, usato anche nelle isole de! Pacifico, consente di limitare a una misura modestissima le perdite di calore dalla buca.

A questi due fattori base — somministrazione di calore e mantenimento di una temperatura sufficientemente alta — se ne aggiunge un terzo: il tempo. Perché per tutti i vari processi che contribuiscono a trasformare un cibo « crudo » in cibo « cotto » occorre sempre un certo tempo, che può variare molto a seconda del tipo del cibo, del tipo della cottura, e di ciò che col cibo si vuoi ottenere. Prima di caratterizzare quello che abbiamo chiamato « tipo di cottura », occorre spendere ancora qualche parola sulle modalità con cui il calore generato dalla relativa sorgente (fiamma, brace, superficie raggiante, piastra calda) viene trasferito al cibo da cuocere. I sistemi di trasmissione del calore da una sorgente ad un corpo da scaldare sono tre, tutti utilizzati per la cottura. Il primo consiste nella conduzione: riscaldando una zona di un corpo, il calore si diffonde all’interno del corpo stesso. Per comprendere il fenomeno, basta riscaldare alla fiamma l’estremità di una posata metallica: dopo un minuto o poco più, si noterà che tutta la posata, fino all’estremità opposta, si sarà riscaldata. Il secondo consiste nella convezione: la sorgente di calore scalda un fluido, il quale si sposta entro l’ambiente, e lo riscalda in maniera più o meno uniforme; se entro l’ambiente sono posti corpi a temperatura inferiore, questi, lambiti dal fluido caldo in movimento, si riscaldano a loro volta. Nella cottura allo spiedo si sfruttano due modi di trasmissione del calore: per irraggiamento (dal fuoco, fonte di calore, alle carni messe ad arrostire in lenta rotazione; e dal fondo del camino, riscaldatosi a sua volta per irraggiamento diretto) e per convezione (dai fumi caldi che si levano dal fuoco stesso).

Il terzo consiste nell’irraggiamento, una sorgente calda emette calore raggiante, come una lampadina emette luce. Tale calore irraggiato, quando colpisce un corpo solido, lo riscalda, e può portarlo ad una temperatura molto più elevata di quella dell’ambiente entro cui il corpo stesso è situato. Nella cottura dei cibi possono giocare, come s’è detto, tutti e tre tali sistemi di trasmissione di calore. Consideriamo una pentola che bolle, con un pezzo di carne immerso in acqua: la sorgente di calore (la fiamma di un fornello a gas) riscalda direttamente una zona ristretta del fondo della pentola; per conduzione, tutto il corpo della pentola viene riscaldato, e riscalda a sua volta, sempre per conduzione, l’acqua che contiene. Questa circola entro la pentola, ed il calore si trasferisce, questa volta per convezione, in modo che praticamente in ogni punto l’acqua di cottura ha la stessa temperatura. L’acqua calda, sempre in movimento entro la pentola, lambisce la carne e ne riscalda la superficie. Dalla superficie all’interno del pezzo di carne, il calore si trasmette di nuovo per conduzione. Consideriamo ora una pentola sul cui fondo sta bel pezzo d’arrosto. Cosa succede? Succede che la fiamma scalda la pentola e questa scalda il grasso; il grasso trasmette il calore nella parte inferiore dell’arrosto, ed il calore si trasmette entro il corpo dell’arrosto: la trasmissione avviene per conduzione.

Siccome la carne è conduttrice del calore piuttosto cattiva, occorrerà « rigirare » periodicamente l’arrosto, per evitare il rischio di avere una parte cotta o quasi bruciata, una parte intermedia cotta in modo soddisfacente ed una parte superiore quasi cruda o comunque cotta in modo insufficiente. Nel caso dell’arrosto agisce quindi essenzialmente, si è detto, la trasmissione del calore per conduzione. Osserviamo ora un forno a legna per la cottura . Nel forno delle pizze: sul suo fondo si ha un mucchio di brace, a legna ed eventualmente qualche ceppo che sta bruciando; a mezza via tra la zona ove brucia la legna e la bocca del forno, si pongono le pizze a cuocere. Esse vengono investite dal calore irraggiato dalla fiamma, dalle braci e dalle pareti del forno, molto calde; si ha dunque cottura a mezzo di calore trasmesso per irraggiamento. In certi casi si ha un’azione mista: un arrosto allo spiedo viene investito dal calore generato dalla fiamma e dalla brace, e contemporaneamente lambito dai fumi caldi prodotti dalla combustione: si ha quindi un riscaldamento misto per irraggiamento e per convezione.

 

Fonte:medicina33