“Parasite” (2019) di Bong Joon-ho, Oscar 2020 | RECENSIONE

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di Giacomo Chiofalo

PREMESSA E PRESENTAZIONE

Con incommensurabili curiosità e desiderio di tornare in sala dopo circa un mese in esilio per ragioni opprimenti e incessanti, eccomi nuovamente al cinema per la visione del primissimo film straniero ad aver conseguito l’Oscar al “miglior film”; che, in più, vanta quelli alla “miglior regia”, “alla miglior sceneggiatura originale” e al “miglior film straniero”.

RECENSIONE

Cos’è davvero Parasite? Molti vi diranno che è la storia di una famiglia indigente, metodica e manipolatrice, che come un parassita si nutre delle ricchezze del proprio ospite per sopravvivere, non creandosi il minimo scrupolo e non avendo pietà per nessuno nell’esecuzione del proprio piano minuziosamente progettato. Ma è così? In parte è vero, ma è peculiare il modo in cui gli sceneggiatori sovvertono la situazione, con un’ironia intelligibile solamente per la risata perpetua e involontaria di Ki-woo: ciò di cui si pasce il 기생충 (parassita in coreano) non reca benefici al consumatore, bensì lo avvelena lentamente e progressivamente, come se l’ospite fosse il portatore di qualcosa di maligno, esiziale, mortale–Ki-jeong, sorella di Ki-woo, ne sa qualcosa! –, che può far “impazzire” il corpo di chi decide di farne banchetto; una situazione simile a quella di un vampiro che tracanna il sangue di un malato di leucemia– sì, mi riferisco proprio all’affascinante Dracula di Netflix. Che sia questa una delle cause che hanno portato Ki-taek, padre di Ki-woo, a compiere l’apparentemente irrazionale gesto che ha messo fine alla vita del suo ormai non più padrone – con un’interpretazione fantastica in primo piano da parte di un talentuosissimo Song Kang-ho? Be’, sapete già la mia risposta: penso che la testa del parassita abbia voluto decollarsi da sé, per il semplice motivo di scindere i rapporti con l’ospite velenoso, troncare definitivamente i contatti con un gesto plateale quanto necessario per salvare la parte restante della famiglia dalla rovina già in atto; un ragionamento che può essere arrivato come un’intuizione: così celere da sembrare una riflessione meramente casuale, da dargli la parvenza di vivere, e poi ricordare, un “sogno”. Cosa intendo, però, per “rovina” o “qualcosa di maligno e mortale”? L’insaziabilità su tutti i piani, materiale e spirituale; il vizio capitale di chi ha una mente sempre carica di pensieri che non sta mai ferma e nella quale quel qualcuno si rifugia per non lavorare su di sé: il peccato di gola. Quale miglior “maestro di turpitudine” – per citare qualcuno –se non una famiglia insaziabile di perfezione sotto ogni punto di vista? Ma va comunque detto che la seconda caratteristica del vitium in questione è già insita nei Kim prima del loro contatto con i Park, soprattutto per l’individuo che arriverà, in un momento crisi, a ripudiare il sistema di avida organizzazione di piani per prediligere un’improvvisazione che non può deludere in alcun modo le aspettative, ché non esistono; lo stesso che compirà il gesto forsennato già mentovato: Ki-taek. Ecco spiegato, quindi, ciò di cui si era avveduto la “mente” e da cosa voleva salvare il suo corpo.

Parasite è anche un equilibrato miscuglio di denuncia e tradizione orientale, dettato dal cospicuo e metaforico influsso del tempo meteorologico sulle vicende della pellicola cinematografica. Si parla di “tradizione”, perché, da secoli, nelle arti orientali ciò che è omesso conta quanto gli elementi che invece sono inclusi, come i silenzi che intervallano le melodie musicali, lo sfondo di un dipinto rilevante o affascinante o espressivo quanto il soggetto – è il caso della xilografia La grande onda di Kanagawa del pittore giapponese Hokusai, nella quale riscontriamo la presenza di un’ impetuosa onda che si abbatte sul distretto di Kanagawa in primo piano, ma, in lontananza, il monte Fuji: il protagonista della raccolta di cui fa parte la xilografia stessa, denotando, un giusto equilibrio tra spazio positivo e spazio negativo: il concetto di ying e yang –, le vignette dei manga che mostrano ambienti o espressioni eloquenti, spezzando il prosieguo della storia con degli intervalli contemplativi quanto funzionali; o, ancora, scene che si focalizzano ad esempio sullo sfondo delle vicende piuttosto che sugli avvenimenti salienti o sui personaggi. In breve: se noi occidentali preferiamo andare dritti al punto, gli orientali sparpagliano per il mondo diegetico i pezzi del proprio puzzle artistico; ma è comunque da dire che già da diverso tempo i due stili si vanno influenzando scambievolmente (la stessa opera di Hokusai ne è già un esempio). Si parla, invece, di “denuncia” per il fatto che, da alcuni anni, la Corea del Sud è funestata da alluvioni insolite (come quella del film), anche se questo non è, ovviamente, l’unico elemento per esporre i problemi dello Stato – potete anche figurarvelo senza la mia guida! Rimane, peraltro, l’aspetto metaforico delle condizioni metereologiche, che vorrei provare a interpretare prendendo degli esempi in analisi: il momento in cui Ki-woo lascia casa Park per la prima volta, la scena del licenziamento di Moon-gwang e quella della notte della colluttazione tra i Kim e l’ex governante e suo marito. Nel primo caso, quantunque il trionfo del ragazzo nell’inserire sé e la sorella nel cerchio solidale di raccomandazioni, il cielo appare plumbeo, come a preannunciare qualcosa di molto distante dalla vittoria e da ogni cosa che ne possa derivare – e così è di fatto –; nel secondo, un fulgore idilliaco, accompagnato da un silenzio atemporale, simboleggia la riuscita assoluta del piano: priva di errori di cui preoccuparsi – ma non di imprevisti! –; nel terzo caso, infine, un nubifragio annuncia lo stato di incontrovertibile rovina del parassita in seguito agli accadimenti di quella stessa sera della pioggia torrenziale, avendo anche un ruolo attivo all’interno della trama.

Trailer ufficiale YouTube

Scheda IMDb:

https://www.imdb.com/title/tt6751668/

Giacomo Chiofalo

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