Monsignor Paolo Piccoli: quando la criminologia dinamica potrebbe aiutare a chiarire una vicenda tutt’altro che conclusa.

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Monsignor Paolo Piccoli è un nome che, fino a pochi mesi fa, era quasi del tutto ignoto ai media.

Il suo caso è diventato noto nel dicembre 2019, grazie al suo accorato appello alla trasmissione “Chi l’ha visto”, per dare la sua versione dei fatti, dopo che alcune testate, all’indomani della sentenza di primo grado (che lo condannava a 21 anni per omicidio volontario), lo etichettavano già, in spregio al principio costituzionale della presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva, come un “presunto assassino”.

Al di là delle motivazioni della sentenza di primo grado, che verranno appellate, il caso mi pare interessante dal punto di vista criminologico, in una fase delicata, come la nostra, in cui la prova scientifica entra prepotentemente in dibattimento.

Il caso di Mons. Piccoli, infatti, è uno dei tanti processi indiziari, ove si è arrivati a condanna perché la Corte di Assise, con diverse motivazioni che oggi non andiamo ad esaminare (questo lo faranno i legali del prelato in atto di Appello), ha ritenuto alcuni indizi “gravi, precisi e concordanti” circa la colpevolezza dell’imputato.

A questo punto, prima delle mie considerazioni, farei un breve sunto per coloro che non conoscono il caso.

STORIA DEL CASO.

Don Giuseppe Rocco, il novantaduenne parroco della chiesa di Santa Teresa, era stato trovato morto nella sua stanza da letto della Casa del Clero di via Besenghi a Trieste, la mattina del 25 aprile 2014. I fatti risalgono al periodo in cui entrambi i religiosi erano ospiti della casa di riposo. I fatti sarebbero avvenuti tra le cinque e le sette di mattina. Don Rocco fu trovato accanto al letto, privo di sensi. Provarono invano a rianimarlo, senza successo e ne fu diagnosticato l’avvenuto decesso. Nell’imminenza dei fatti si ipotizzò una morte naturale, correlata anche all’età. Solo dopo, si scoprì la (per ora presunta) verità. Il religioso sarebbe stato strangolato e soffocato, anche se l’autopsia (e questo è un dato controverso su cui la difesa di Don Piccoli insiste), non ha rilevato ematomi all’osso joide, tipici dello strangolamento. L’ipotesi dell’omicidio, che ispirò l’apertura delle indagini, fu sostenuta dal rilievo della scomparsa della catenina d’oro che l’anziano prete teneva sempre al collo, scomparsa segnalata dalla perpetua, Eleonora Dibitonto.

In sintesi, stando ai fatti processuali, Don Paolo è stato condannato per aver ucciso l’anziano prete per rubargli una collanina e alcuni altri oggetti di scarso valore materiale (una bomboniera a forma di veliero e una madonnina di legno). Gli indizi, ritenuti gravi precisi e concordanti, sarebbero stati la presenza di macchie ematiche di Don Piccoli, rilevate sul letto dell’anziano sacerdote, oltre a presunti screzi tra il Piccoli e la perpetua.

Contro la sentenza, comminata dalla Corte di Assise di Trieste, il legale del prelato, l’avvocato aquilano Vincenzo Calderoni, ha annunciato di voler proporre appello. «Non ci sono prove. Il sangue del mio assistito sul letto del morto è solo la conseguenza di una xerosi cutanea, lui infatti era lì a dargli l’estrema unzione. Inoltre, la ricostruzione basata sull’ipotesi dello strangolamento non è veritiera in quanto non ci sono infiltrazioni emorragiche sull’osso ioide. Manca, infine, nella maniera più assoluta, il movente», sostiene il legale.

A favore delle contestazioni del legale vi è l’autopsia, i cui risultati non sono risultati univoci sulla morte per strangolamento, mentre parrebbe più probabile una morte per soffocamento.

Don Piccoli conferma quanto sostenuto dal suo legale: «Lui non lo vedevo quasi mai, avevamo orari diversi e io quella mattina mi sono alzato alle sette e mezzo, ignaro di quello che era successo, perché avevo in programma una gita a Capodistria con altre persone. Mi riferirono della sua morte e così, in attesa del vicario del vescovo, andai ad impartirgli la benedizione. Sono state trovate delle macchioline del mio sangue sul suo corpo, è vero, ma sono collegate a una delle patologie di cui soffro. C’è una domanda fondamentale che nessuno si è mai posto. Perché mai avrei dovuto buttare 43 anni di vita religiosa, di cui 26 anni di sacerdozio e 23 di monsignorato, per una catenina e due bomboniere?».

Il passaggio delicato, e forse debole, della sentenza di primo grado, sta sul fatto che si fonda su una testimone principale (la perpetua di don Rocco), la cui presenza nella Casa del clero, insieme ad altri elementi (come il fatto che sia risultata beneficiaria di un testamento della vittima, firmato alcuni mesi prima), la renderebbero, secondo la difesa del Piccoli, inattendibile.

Un altro punto debole della sentenza sta nella mancanza di un movente a carico del Piccoli, stante il modico valore dei beni che si asserisce volesse sottrarre al Rocco.

Vi è, infine, un elemento che pare decisivo, ma che pare sia stato sottostimato dalla Corte di Assise di primo grado: la scomparsa, dalla scena del crimine, del cuscino usato da don Rocco, cuscino che potrebbe essere compatibile con l’ipotesi di una morte per soffocamento e sul quale l’autore materiale dell’omicidio, se fosse confermata l’ipotesi del soffocamento mediante quel mezzo, avrebbe certamente lasciato del materiale biologico. Era sicuramente presente all’arrivo della polizia giudiziaria, che lo ha documentato nelle foto agli atti, ma è successivamente (e, pare, misteriosamente) sparito. Come mai? Non pare che la sentenza di condanna di primo grado fornisca una spiegazione.

DISAMINA DEL CASO

Questo è il quanto. In sostanza, per riassumere, la mattina del 25 aprile 2014, la perpetua trova don Rocco a terra e chiama il 118. Dalla registrazione telefonica emerge che non fosse nemmeno in grado di dire se respirasse o meno, salvo, poi, puntare con certezza il dito contro Don Piccoli quando (essendo, non è irrilevante prenderlo in considerazione, beneficiaria del testamento di Don Rocco) non trova la catenina che don Rocco portava al collo.  Catenina che la stessa ha dichiarato fosse sempre al collo di don Rocco.

Procediamo con ordine nella disamina del caso.

Tra gli indizi, ritenuti “inequivocabile prova della colpevolezza”, vi sono delle minute macchie di sangue, appartenute al Piccoli, e reperite sul letto del sacerdote novantenne trovato morto a terra a bordo letto. Per la precisione, le macchie erano localizzate in una posizione congrua col racconto del Piccoli, che affermò di essersi prima inginocchiato a bordo letto per la preghiera, con le braccia appoggiate sul letto, e poi giratosi verso la testa del defunto, lo avesse benedetto facendogli una croce sulla fronte con la mano destra mentre teneva l’arto superiore sinistro appoggiato al bordo del letto. Orbene: le macchie erano al bordo del letto, vicino alla posizione in cui era la testa del defunto, e proprio sul letto, in posizione prossima alle gambe, ove il Piccoli affermò di aver appoggiato gli arti superiori in posizione di preghiera.

Tutte queste informazioni ci provengono dall’intervista rilasciata alla Trasmissione “Chi l’ha visto” da parte del Piccoli stesso che, con dovizia di particolari, spiega la motivazione della presenza delle macchie in quelle precise posizioni.

La prima osservazione da fare è che delle macchie di sangue non ci dicono quando sono state deposte dal Piccoli. Il Piccoli, a sua difesa, ha dato una versione che, potrà essere credibile o meno, ma non è nemmeno campata per aria. Il Piccoli, inoltre, referti alla mano, ha dato prova di soffrire di una patologia epatica causa di xerosi cutanea, fonte di stillicidio ematico dalle croste che egli aveva e ha.

Sappiamo bene che la sola presenza di materiale organico, non può applicare l’etichetta di assassino ad una persona. La storia di Raffaele Sollecito, per anni ritenuto ingiustamente un assassino, avrebbe dovuto insegnarci che la presenza di materiale organico non può essere ritenuta una “prova regina” ma, tutt’al più, un indizio da cui partire, che deve, in seguito, avvalorare altri indizi per arrivare alla prova.

Un altro indizio sarebbe stato invocato come prova di colpevolezza: una lettera di richiamo, da parte del Direttore della Struttura per Sacerdoti, a Mons. Piccoli, a non entrare nelle camere degli altri sacerdoti. Piccoli aveva risposto a quella lettera spiegando che era andato a cercare la cameriera (impegnata nel riassettare le stanze dei sacerdoti) per fari attaccare un bottone, ma si era anche impegnato a non entrarvi più, considerato che solo quello era il suo fine. A mio modesto parere, una lettera di richiamo a non entrare, più che una prova di colpevolezza, costituisce prova di ragionevole dubbio. Solo uno sciocco, dopo una lettera di richiamo, torna in una camera altrui, ben sapendo che, scoperto, sarebbe incappato in un altro richiamo. E, vista l’ora in cui i fatti sono avvenuti, la certezza di essere scoperto era pressochè sicura, posto che l’anziano sacerdote, guardato a vista dalla perpetua, era ancora a letto. Anche questo indizio, quindi,  a mio parere, è insussistente se non per rilevare un ragionevole dubbio a favore dell’imputato.

Bisogna anche tener conto che, a quell’ora, il rischio di essere scoperto dalla perpetua di don Rocco (con la quale non correva buon sangue) sarebbe stato sicuro. Come mai, quindi, la perpetua si accorge dei fatti quando sono già avvenuti e non nel momento della loro esecuzione? Uno strangolamento molto difficilmente avviene senza resistenza della vittima, e, quindi, senza alcun rumore. Anche perché, è bene ribadirlo, don Rocco è stato trovato a terra.

Vi è, inoltre da considerare che, a dare il colpo di grazia al Piccoli, è la figura della perpetua di don Rocco. E’ lei che, ad un certo punto, ovvero quando rileva l’assenza della catenina al collo del prete trovato morto, scaglia il dito contro mons. Piccoli, sostenendo con sicurezza la tesi dell’omicidio per sottrarre al Rocco quel bene.
Sorprende che la stessa, al telefono col 118, dopo aver trovato a terra il prelato morto, non si dicesse nemmeno sicura se respirasse o meno. Tale originaria incertezza pare stridere con la successiva  sicurezza accusatoria, sgorgata quando non si è trovata la catenina al collo del prete defunto. Come si potesse escludere con certezza che un anziano di 92 anni, pur avendo sempre portato al collo la collanina, non avesse potuto perderla (quando è notorio che un anziano perda spesso oggetti personali, anche alla luce di un possibile decadimento cognitivo lieve, che caratterizza spesso quelle fasce di età), mi pare un vulnus della sentenza di primo grado.

Anche in questo caso, come in altri noti, mi pare si sia ribaltato l’onere della prova: più che investire il PM del compito di dimostrare la colpevolezza del Piccoli “al di là di ogni ragionevole dubbio”, mi pare si sia caricato il Piccoli della responsabilità di dimostrarsi innocente, previa colpevolezza, dopo aver constatato l’assenza della collanina e la presenza delle macchie di sangue del Piccoli sul letto di don Rocco. Un po’ poco per dichiarare una persona un “presunto assassino”.

Siamo, poi, sicuri che la catenina non sia più stata ritrovata? E, se fosse stata ritrovata (così parrebbe, secondo quanto sostenuto dal Piccoli, leggendo i verbali di udienza, laddove vengono interrogate le inservienti della casa del Clero), considerato che sarebbe il movente dell’omicidio, e non era in possesso del Piccoli, come mai non ha allargato le indagini su chi aveva, effettivamente, la detenzione di quella collanina?

Un altro punto, a mio avviso, rimasto da chiarire (sempre che non sia sfuggito a me) è l’entità dei beni lasciati per testamento da don Rocco ad eredi e legatari. Con questo non si vuole puntare il dito contro nessuno, ma di certo, se è stata una banale collanina ad attirare una così forte attenzione, sarebbe stato utile valutare a quanto ammontasse la massa ereditaria al momento della successione a don Rocco. E’ stato fatto? Non pare che la sentenza ne parli.

Si è anche accusato il Piccoli sulla base di una certa personalità “teatrale”, che ha manifestato anche durante il processo e all’indomani della sentenza nel corso delle interviste. A “Chi l’ha visto” ha colpito la sua risposta alla domanda: “Ha ucciso lei don Rocco?”. La risposta, cito a spanne, è stata questa: “Assolutamente no, anche perché, avessi voluto farlo, avrei scelto un modo più teatrale”. Questa frase ha aizzato gli animi di tutti coloro che analizzano il linguaggio per ritenere che sia una ammissione di colpa. Io credo che da una frase non si possa ricavare alcuna prova. Viene, infatti, subito da replicare che, testimonianze alla mano, Don Piccoli ha da sempre manifestato tale tratto caratteriale, fin dai tempi in cui era Cappellano sulle navi da crociera. Tale tratto persiste anche oggi, nelle interviste che rilascia. Don Piccoli continua a citare il libro di Giobbe, versetto 1.21, il quale viene messo alla prova e viene spogliato di tutte le sue cose: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del signore», ripete come se volesse arginare la condanna cadutagli addosso come un macigno. E ancora: «Sono innocente, non ho ucciso io don Giuseppe Rocco, contro di me hanno vinto i pregiudizi e le bugie. Vivo una grande sofferenza, come Giobbe sono stato messo alla prova».

Figura fuori dalle righe, ricorda anche, senza cercare attenuanti (e questo è segno di sincerità), di essere caduto, dopo il terremoto dell’Aquila, in una severa depressione, per cui aveva manifestato una tendenza ad assumere eccessive quantità di alcool, problematica dalla quale è poi uscito, senza che questa mai avesse interferito col suo comportamento e con la sua missione. Ed, in effetti, vi è da rilevare che, al di là del tratto istrionico e melodrammatico, non vi sono stati, in precedenza segni di una violenza del Piccoli, tali da poter affermare ex post che erano prodromi di una indole violenta. Per dirla con franchezza, strano ed originale non significa violento ed assassino. Anche ora che vive a Verona, in un appartamento di un grande condominio del centro, non ha mai dato avvisaglie di comportamenti socialmente pericolosi.

Circa il fatto che, assai molto difficilmente,  il Piccoli avrebbe rischiato di rovinare 26 anni di sacerdozio per beni di modico valore, la circostanza, a mio avviso, merita di essere considerata. Non dimentichiamo, infatti, che il Piccoli è uno dei massimi esperti italiani di liturgia ed antiquariato di oggetti sacri. Questi aspetti, di cui il Piccoli è conscio, rendono assai difficile sostenere l’ipotesi di un omicidio per una catenina di scarsissimo valore. Non si sta parlando di un ostensorio d’oro massiccio del XVI secolo, bene che avrebbe potuto attirare l’attenzione di un religioso colto come il Piccoli.

Non da ultimo, vi è da rilevare che non è stata trovata l’arma del delitto. Si parla di strangolamento ma lo strangolamento pare non sia stato confermato dall’esame autoptico, che ha escluso micro-emorragie all’osso joide. L’ipotesi alternativa parrebbe essere quella di una “soft asphyxia” mediante soffocamento e, in tale contesto, diventerebbe assai interessante capire quando, come e perché sia sparito dalla scena del crimine il cuscino usato da don Rocco. Pare che anche questo elemento non sia stato considerato dalla sentenza di primo grado.

 

CRIMINOLOGIA DINAMICA E LA SUA UTILITA.’

Il prof. Eugenio D’Orio e il giudice emerito dott. Gennaro Francione, nel corso di questi anni recenti, hanno elaborato la teoria della cosiddetta criminologia dinamica, che tanto sarebbe utile in casi come questi, dove il materiale biologico rischia di diventare, se male interpretato, una prova anziché un indizio.

Di recente hanno scritto un libro (“CRIMINOLOGIA DINAMICA: LA VIA DI POPPER AL DNA” di Gennaro Francione ed Eugenio D’Orio, con la prefazione di  Eraldo Stefani e la postfazione di Massimo Pezzuti) edito dalla nuova Editrice Universitaria di Roma. Tale libro, dedicato in memoria al giudice Ferdinando Imposimato, è un vademecum nel quale si affrontano le problematiche sull’uso della prova scientifica nel contesto investigativo e processuale penalistico, analizzando l’epistemologia di Popper e i principali articoli del c.p.p. in materia di accertamenti tecnici e garanzie per l’imputato. Il metodo di Popper viene esteso all’intero processo penale per garantire ricostruzioni scientifiche su prove fortissime e mettere al bando i romanzi indiziari fonti di innumerevoli errori giudiziari. Nel libro si richiamano anche sentenza “storiche” sul tema DNA, quale quelle dei processi per gli omicidi Kercher e Gambirasio. Il libro è rivolto ai giuristi, ai biologi forensi, a coloro che si occupano di indagini scientifiche, ma anche alla marea di appassionati dediti a seguire con fervore i tanti processi eclatanti del nostro tempo. E’ stata creata anche una pagina Linkedin (https://www.linkedin.com/groups/8604835) e una pagina Facebook (https://www.facebook.com/Criminologia-Dinamica-La-via-di-Popper-al-DNA-2270134859975434/?modal=admin_todo_tour) per creare un forum in cui i professionisti del settore forense attivano discussioni, idee e anche critiche. Il fine cui si tende e’ il confronto per trovare “nuove vie” per il raggiungimento del Giusto Processo su base scientifica e della parita’ processuale delle parti. Particolare attenzione è stata posta alle innovative metodologie e conoscenze tecnico-scientifiche che, avendo un diretto impatto nel settore forense, possono configurarsi come uno strumento di inestimabile ausilio per i Giudicanti e per gli Inquirenti, ovvero per il corretto funzionamento della cd. “macchina giudiziaria”.

In particolare, di fronte al reperimento di una traccia biologica, la criminologia dinamica si pone di rispondere a diversi quesiti: Chi l’ha posta? Quando l’ha posta? Come l’ha posta? Perché l’ha posta?

Solo rispondendo a questi quesiti, il materiale biologico può assurgere al ruolo che oggi gli si vorrebbe dare di prova. Altrimenti, e dispiace doverlo constatare, si rischia di porsi nei confronti della prova scientifica con quell’atteggiamento fideistico che il metodo scientifico aborrisce.

Nel caso di specie, il reperimento di questa traccia ematica, effettivamente del Piccoli, avrebbe suggerito di comprendere le modalità con cui è stata depositata, e capire se esse fossero o meno compatibili con l’ipotesi di una strangolamento, alla luce del fatto che (dato non irrilevante) l’autopsia pare non abbia rilevato le microemorragie presenti nell’osso joide degli strangolati. Diventerebbe, invece, assai utile ritrovare il cuscino, e comprendere quel mezzo sia compatibile, anche alla luce di materiale biologico su di esso ritrovato (sperando che le indagini non abbiano tralasciato questo particolare), con l’ipotesi di una morte per soffocamento.

CONCLUSIONI.

Ci si augura che, nell’instaurando Appello, la volontà di far piena luce sui fatti, nel rispetto in primis della vittima, porti a riconsiderare tutto il castello accusatorio costruito sul Piccoli, evitando di perdere di vista piste alternative.