“L’Emigrante” | di Anna Profumi

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“Questo mio racconto è dedicato a tutti gli Italiani che tra gli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso furono costretti ad abbandonare la loro terra per cercare fortuna all’estero”.

Era da tempo pervaso da una malinconia antica. Avvertiva un desiderio struggente di ritornare al paese natio, tra la sua gente. Non ne poteva più di vedere facce anonime, ascoltare quella lingua aspra che anche dopo tanti anni faceva fatica a parlare, accettare abitudini e modi di fare che non sentiva suoi. Si sentiva straniero, tra gli stranieri. Non ne poteva più della fabbrica in Germania, della catena di montaggio, dei turni massacranti, del freddo, e di quel cielo perennemente grigio che regalava a fatica qualche raggio di sole.

Aveva bisogno di respirare l’aria di casa, guardare l’azzurro del cielo, riascoltare la voce delle persone care, sentirsi parte di quella società antica, arcaica, a cui era inesorabilmente legato. Voleva tornare a camminare tra le viuzze ripide del suo paese, annusare l’odore della salsedine quando soffia il maestrale e incrosta di salsedine le vecchie barche, parlare il dialetto dei padri, ritrovare i sapori della sua infanzia.

Finalmente, nella grande città tedesca era giunta l’estate, e poteva godersi il  meritato riposo.  “Ora o mai più” si disse. Mise alla rinfusa in una grossa valigia i vestiti e la biancheria necessaria, e pose in cima i regali che aveva acquistato per la sua famiglia. Lasciò al custode le chiavi del locale dove alloggiava e si avviò a passo veloce  verso la stazione. Il viaggio sarebbe stato lungo e faticoso. Nell’attesa, si accese una sigaretta per scaricare la tensione accumulata. Si sentiva felice, felice come un bambino. Nessuno lo aspettava  e la sorpresa sarebbe stata grande per tutti!

Guardò la valigia di cartone marrone pressato, legata con uno grossa corda. Gliela aveva regalata suo padre quando aveva deciso di emigrare in Germania. “Ti porterà fortuna.” Gli aveva detto. “Torna qui quando sarai diventato ricco”. La sollevò a fatica tanto pesava e la ripose con cura sulla reticella sopra il sedile, accanto al finestrino. Si sedette sfinito. Finalmente, dopo tanti anni di sacrificio poteva permettersi quello che gli era stato negato. Aveva lavorato come un dannato, si era spaccato la schiena, le mani si erano riempite di calli. Poco riposo, raramente uno svago, ma era riuscito a mettere da parte un bel gruzzolo. Ora, poteva comprare la casetta dove stavano i suoi genitori, e anche un piccolo appezzamento di terra da coltivare. Li avrebbe aiutati e ricompensato in qualche modo per la lunga attesa.

Mentre il treno correva si affastellavano i ricordi. La vita gli scorreva davanti come la pellicola di un film. Si rivedeva ragazzino, durante i lunghi pomeriggi estivi, quando giocava a pallone assieme a qualche compagno di scuola nell’oratorio della chiesetta del paese. Ricordava ogni particolare con struggimento, una mancanza che faceva ancora male, se cercava di ricordare il volto di sua madre chino su di lui a medicare le ginocchia sbucciate. Non lo rimproverava mai. Con gesti lenti lavava via sudore e sporcizia passando la spugna insaponata nella grande tinozza di zinco in cucina. Lui si vergognava un po’di quelle attenzioni, ma gli bastava guardare quel viso, ammirare i capelli arrotolati con una treccia sul capo, e ascoltare la sua voce pacata,  una cantilena che faceva così bene al cuore.

Tornando a casa, avrebbe chiesto di Maria, il grande amore della sua giovinezza, la ragazza che gli aveva donato la sua innocenza con la passione dei vent’anni. Lo aveva amato senza nulla pretendere. “Ti aspetterò sempre”, gli sussurrava ogni volta che stavano assieme. Si incontravano al tramonto, alla fontana della piazza, con la scusa dei secchi d’acqua da riempire. Non c’era bisogno di dirsi nulla. Percorrevano in fretta la ripida mulattiera, in cima alla quale c’era da tempo un casolare abbandonato. Era il loro rifugio segreto. Si erano amati lì, la prima volta, con la voglia e la complicità che li univa. Maria era bella, troppo bella, e lui sentiva un fremito irresistibile lungo la schiena tutte le volte che guardava quei suoi grandi occhi neri e poi la spogliava. Era la sua donna ormai e voleva sposarla. Sarebbe stata la madre dei suoi figli. Non poteva essere altrimenti.

Ma il destino aveva in serbo un’amara sorpresa. Maria, si era dovuta trasferire in città, assieme alla famiglia perché suo padre aveva ricevuto la promessa di un lavoro più remunerativo. Lei all’inizio aveva scritto qualche lettera, soffriva per quella lontananza e si sentiva spaesata in una città dove non conosceva nessuno. Passò qualche mese, poi improvvisamente non ricevette più notizie. Lui si dannava, non si dava per vinto. Avrebbe fatto qualunque cosa pur di rivederla e parlarle un’ultima volta. Provo e riprovò a cercarla. Alla fine capì che quel silenzio significava un addio.

Un forte scossone del treno lo fece trasalire. Basta ricordi, si disse, mentre la grande stanchezza  lo obbligava a chiudere nuovamente gli occhi. La barba era lunga, i vestiti stazzonati, ma che importa? A casa c’è sempre una mamma che si prende cura di tutti. Tentò di riaddormentarsi pensando al bisogno spasmodico di riabbracciare quella donna che lo aveva messo al mondo e  lo aveva allevato con grande dolcezza.

Si risvegliò alle prime luci dell’alba. Guardò incuriosito fuori il finestrino. Finalmente  si stagliava il profilo delle amate colline e poco dopo iniziò ad intravedere una striscia di mare. Si stupiva che il colore fosse così blu e il litorale sabbioso si perdeva a vista d’occhio. “Mediterraneo, amata terra mia, ritrovo il bianco delle case, il verde delle persiane, e i rampicanti viola che intrecciano rami perenni sui vecchi muri. “

Il fischio improvviso della locomotiva e il treno che mano a mano rallentava la sua corsa fu il segnale che il lungo viaggio era davvero finito. Scese stordito dal vagone e venne subito avvolto dal caldo torrido e la luce del mezzogiorno che abbagliava. Non c’era una alito di vento. La scritta arrugginita nella vecchia stazione del paese era quasi illeggibile. S’incamminò lentamente ma il peso della valigia lo fece barcollare. Sorrise immaginando la sorpresa di quei visi rugosi, cotti dal sole. Dopo quasi mezz’ora arrivò davanti casa sua; l’uscio era  socchiuso. Non si percepiva nessun rumore, solo lo starnazzare dei polli nelle stie e l’abbaiare festoso del cane da guardia legato alla catena. Spalancò la porta chiamando sua madre a voce alta. Nessuno gli venne incontro, nessuno rispose. “Che strano”, si disse. Si recò allora nella sua vecchia stanza. Le imposte erano socchiuse per fare entrare un po’ di ombra. Nulla era cambiato dall’ultima volta che se ne era andato: il copriletto ricamato, l’armadio con dentro le lenzuola fresche di bucato, la seggiola impagliata e il piccolo crocefisso di legno alla parete. Tutto era in perfetto ordine. Sul comodino, traballante, era ancora posata la fotografia del giorno della sua prima comunione.

Spalancò le persiane. Allora, come ora, i cespugli rosso fuoco dei fichi d’india circondavano la casa. Percepì il frinire delle cicale in lontananza nei campi. In cima al viottolo che conduceva all’aia, scorse improvvisamente delle persone camminare incolonnate. Gli sembrò una processione. Le donne con i fazzoletti neri in testa e gli uomini vestiti a lutto, nonostante il caldo soffocante. Assieme al prete, un chierichetto reggeva una piccola acquasantiera. Venivano tutti verso la casa, in fila indiana. Fu pervaso da un brutto presentimento. Un funerale? Chi se ne era andato in paese, proprio oggi?

Uscì in fretta. Il sole a picco gli trafisse gli occhi e fu costretto a ripararsi con la mano. Intravide la sagoma di suo padre che camminava curvo, piegato dalla fatica e dagli anni, mentre si appoggiava al bastone.

“Padre”, urlò, spalancando le braccia, “vedete, sono finalmente tornato!” Gli andò incontro felice abbracciandolo. L’uomo si scosse, stupito e rassegnato. Alzò la mano per fargli una carezza. La ritrasse quasi subito vergognandosene. Con la voce che gli tremava, riuscì a mormorare: “Tua madre ti ha aspettato tanto. Ieri, improvvisamente se ne è andata! ”.

Lui non comprese subito, fissò inebetito le facce impietrite che lo circondavano. Non disse una sola parola. Le donne piangevano sommessamente. Si voltò di scatto e richiuse l’uscio alle spalle. Corse nella sua stanza. Guardò i regali che aveva preparato sul letto. Lo scialle che aveva scelto per sua madre era ancora impacchettato con un grande fiocco rosso. Avvertiva adesso una fitta dolorosa al cuore. Doveva riprendere fiato. Si sentiva svuotato, impaurito, solo.

Si gettò sul letto. Si rigirò dieci, cento volte senza trovare requie. Riprese a ricordare.

Correva ancora nel campetto dell’oratorio dietro la chiesa. Era tutto sudato, era caduto tante volte, le ginocchia sbucciate gli facevano un gran male, ma non c’era più nessuno che lo curava. Riaprì nuovamente gli occhi. Si alzò di scatto, entrò in cucina,  rovistando dappertutto. Mise a soqquadro tutto quello che gli capitava a tiro. Finalmente,  sotto il grande lavello di marmo, ritrovò la vecchia tinozza di zinco. Sua madre l’aveva conservata per lui in tutti quegli anni.

Lacrime liberatorie iniziarono a rigare il suo volto stanco. In cuor suo sapeva che lei lo aveva perdonato.

Anna Profumi

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SHORT-BIO | ANNA PROFUMI Mi presento. Sono romana di nascita, ma genovese di adozione, poiché poco più che bambina mi trasferisco assieme alla mia famiglia nel capoluogo ligure, dove completo tutti gli studi superiori e successivamente intraprendo la mia attività lavorativa. Appena diplomata in lingue estere svolgo mansioni di interprete in una società di navigazione e successivamente presso la IP Sezione Chimica. Dopo qualche anno sono assunta da una multinazionale americana con la qualifica di Segretaria di Direzione, a stretto contatto con le varie società estere ed i più importanti clienti italiani del polo chimico. Terminati gli impegni d’ufficio, dopo aver usufruito di un pensionamento anticipato, mi iscrivo alla Facoltà di Lettere e Filosofia della mia città, che frequento per approfondire le mie conoscenze in campo umanistico. Le passioni di una vita? La letteratura, la poesia, l’arte in tutte le sue forme e la cultura in generale. Da qualche anno a questa parte, riscopro la passione di sempre, il piacere della scrittura, e pubblico con la casa editrice Salvatore Monetti di Battipaglia, ben quattro romanzi. Il primo, edito nel 2016 è intitolato “Geisha”. I successivi nell’ordine, sempre per Monetti Editore sono stati: “Una donna, una Regina”, biografia storica di Maria José di Savoia, ultima regina d’Italia, “L’Inganno” romanzo dell’aprile 2017. “Il filo di Arianna” uscito nel novembre 2017, and last but not least “Il Dubbio”, pubblicato nell’aprile del 2019. Alterno l’attività di scrittrice, con la recensione di libri, e pubblico periodicamente come blogger articoli su alcune riviste sul web. Da quasi cinque anni amministro un gruppo culturale molto seguito su Facebook che conta migliaia di iscritti e conduco una pagina personale sul web dove posto riflessioni, brani, poesie, citazioni, etc., interagendo con tutti i miei numerosi amici. Recentemente ho anche creato una pagina autore intitolata “La voce del cuore”, che contiene brani e recensioni dei miei libri. Qui di seguito tutti i link relativi ai miei profili su in rete. Anna Profumi: https://www.facebook.com/groups/marionanna/ https://www.facebook.com/profile.php?id=100009082468091 https://www.facebook.com/profile.php?id=100009082468091