“Nota sul romanzo” | di Paolo Massimo Rossi

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Essenziale, per scrivere, è aver preventivamente letto: molto e di tutto, con dedizione e continuità. Dunque anche desiderio di “imitazione” in senso lato e non specifico di un testo.

La storia che si racconta è, necessariamente, fatta di parole.

Le parole: i costituenti essenziali.

A mio modo di vedere, uno dei compiti/doveri di chi scrive è la ricerca della precisione nella scelta delle parole. In altri termini, esse devono identificare – senza possibile dubbio – un momento, un’atmosfera, un’immagine, un sentimento. In qualche modo devono essere sufficienti a se stesse.

La scelta della parola non può che essere una ricerca – anche spasmodica e critica – fatta nella memoria, in un dizionario, in un testo letterario o scientifico di altri autori.

È necessario saper impostare il ritmo con cui le parole si susseguono. Il ritmo parla alle capacità razionali della mente – stimolando curiosità e piacere letterario – e dà valore al testo, pur non rappresentando il mezzo per suscitare l’interesse o per conoscere lo sviluppo e la conclusione della storia. A quest’ultima spetta, invece, il compito di coinvolgere il cuore e il suo bisogno di ascolto della narrazione: è il canovaccio dove si esercitano la fantasia, la cultura e – last but no least – il desiderio di affascinare di chi scrive. La storia può avere una motivazione e uno svolgimento sicuri – se si vuole lanciare un messaggio etico, didascalico o di altro genere – ma può essere anche un continuo divenire, un work in progress che per strada cambia personaggi, vicende, conclusioni e atmosfere: la scrittura come registrazione dell’incertezza.

In questa dicotomia dello scrivere è racchiuso, io credo, il possibile/risultante fascino del leggere.

È da aggiungere che, personalmente, non amo il revival di una frequentata modalità letteraria italiana: “L’enfasi sentimentale”, largamente abusata e utilizzata nel e dal nazional-popolarismo italiano. E cito, al riguardo, il critico letterario Filippo La Porta: «… elementi tipici della tradizione italiana: enfasi – o ardore – sentimentale e recitazione delle passioni; moderatismo e messinscene, dimesse o sontuose che siano; diffidenza per la complessità lessicale e per la teatralizzazione dei conflitti; elusione del tragico e prevalenza di narrazioni emotivamente finalizzate. A ben vedere, le ambiguità e i travestimenti di questa narrativa sono gli stessi del suo pubblico.»

Una tradizione che talvolta (e certo nei momenti più finalizzati alla creazione di una suadenza d’ambiente tesa a commuovere) si risolve nell’adozione compiaciuta di una mestizia – sorta di astuzia letteraria tesa a mimetizzare quell’enfasi – che vieppiù appiattisce, ammesso che ciò sia possibile, la maniera preventivamente impostata a caratterizzare storia e protagonisti: cioè l’immobilità (o la monotonia) degli eventi narrati. Scelta che finisce per ammantare questi ultimi di una esteriore e formale luce poetica che, inevitabilmente, si rivela essere una monadica quanto anòdina rappresentazione dell’universalità delle emozioni.

Paolo Massimo Rossi