“La gioia fa parecchio rumore”: l’ultimo libro di Sandro Bonvissuto | INTERVISTA

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di Mattia Mincuzzi

“La gioia fa parecchio rumore”: finalmente a far rumore non è più il silenzio, ci racconti un po’ di questo titolo?
Il significato del titolo si trova già dissimulato nel libro. Questo lavoro, infatti, ha un orientamento diverso rispetto a libri che raccontano di problematiche personali, di un sentire sprofondato nell’ego, nell’idolatria di se stessi. Questo è un libro collettivo, corale, esterno, che narra cose che si consumano in questa dimensione: è libro tribale. Il messaggio che vuole racchiudere è che nessuno è più importante degli altri: io sono cresciuto così e nel libro si rileva una salute data dalla consapevolezza che tutti sono utili e indispensabili.
Nei romanzi di oggi, invece, il borghesismo porta a scrivere gente che non ha nulla da fare, senza aver mai avuto esperienze, ed è questo il vero male della società: individualismo più profondo in cui, poi, pone le radici il consumismo. La gente si è persa nel progresso che sa tutto di noi, che porta a libertà e benessere ma anche all’egoismo. La gioia, invece, nasce dal fatto che tutti siamo uguali ed è una gioia che si può esibire nel collettivo dello stadio, della famiglia: il protagonista non è diverso dagli altri, è un nessuno che si trova con tutti, senza esser loro superiore. Se sono contento strillo, e allora strillo!

L’inizio del libro sull’amore richiama quasi il modello del trattato filosofico: tanti predecessori, ti sei ispirato a qualcuno di loro?
È un libro romantico, che si aggancia all’amore stesso, multiforme. Rileva la sua dimensione più sana, estroflessa, non l’amore consumato, bohemienne, parigino, straziato: è l’amore del calcio, più puro, condivisibile, esibibile senza vergogna, perché penso che il mio simile sia come me, anche se dovesse pensarla diversamente. C’è rispetto.
Il libro esprime un territorio, Roma, le peculiarità di un tifo, di un amore che non chiude agli altri, perché, anche se difendi altri colori, sei come me, ami la tua squadra. Un amore, quindi, provinciale, ma anche universale, perché onestamente radicato: non è una sovrastruttura, ma una naturalità, data dall’onestà del prelievo del sentimento dal basso.
Il libro è super romantico. Come teoretica si avvicina alla tradizione europea ottocentesca, ma non mancano anche pulsioni proprie di personaggi come Don Chisciotte o il conte di Montecristo: odio, amore, vendetta. Tutto ciò nasce dal fatto che l’uomo è la macchina per sentire le emozioni più straordinaria del mondo e i sentimenti catturati nel libro sono quelli di cui non ci si deve vergognare, perché inseriti in un’era in cui l’uomo poteva pensare di difendere i colori di una squadra di calcio al pari di quelli che rappresentano degli ideali, il che è tutto ridicolo.
In questa storia, risuona l’uomo nella sua grandezza e nella sua miseria, quello che potrebbe anche non mangiare di fronte alla sconfitta della sua squadra: è un libro ridicolo, ma anche nobile, il cui protagonista è come un Don Chisciotte: grottesco, immenso nel suo dramma, enorme nella sua miopia. Un libro che amplifica i difetti e le qualità di un uomo che combatte per qualcosa, a cui importa di qualcosa.
C’è modo migliore, in fondo, che il militare per vivere e per morire? No, perché non si vive nell’ignavia. Quello rappresentato è il mondo della gente a cui frega di qualcosa, non ignava, il mondo di una tribù tenuta insieme da un totem, un golem che ovviamente non esiste.

Parliamo di questo amore particolare. Molti calciatori, dopo aver dato tutto per i tifosi per anni, spesso vengono attaccati per un errore. Perdono calcistico e perdono in amore: qual è il confine?
In un amore borghese, sovrastrutturato, è difficile trovare il perdono: quello raccontato, invece, è l’amore vero, dove l’uomo è quello che è nel bene e nel male. Un esempio su tutti: Agostino Di Bartolomei.
Agostino si è ucciso per la Roma. La grandezza e la forza di quell’amore ti permette di vederlo con un’altra prospettiva, dove non può non esistere il perdono: non sei più un traditore, non hai più lasciato la Roma ed esultato contro di lei, non sei più Bruto che accoltella Cesare.
Ad Agostino direi che ha sbagliato, ha sbagliato a tradire la Roma, ma direi anche che lo capisco: ma che doveva fare? Il giorno in cui si è ucciso, ci siamo immedesimati tutti in lui, che da tempo aveva già capito di dover uscire da quel mondo perché era un uomo dritto e non ne faceva più parte.
Questo è un amore dove si rivedono i fatti alla luce della tua dirittura morale: questo fa l’uomo grande.
La vicenda di Agostino è una tragedia greca, anche Euripide, se l’avesse scritta, l’avrebbe scartata per la sua durezza, ma l’uomo è questo e la sua grandezza si svela nel bene e nel male che non sono scindibili: la parabola di tutti i grandi campioni ci insegna questo.
Agostino non è stato capito da un mondo ormai corrotto, Agostino ci insegna che non c’è posto per le brave persone nel mondo: in fondo hanno crocifisso pure Gesù…
Agostino sarà sempre il capitano dei romanisti: l’uomo sbagliato, non quello perfetto.

Il calcio di rigore: non solo un momento calcistico, ma qualcosa di più.
Il calcio di rigore ti fa capire la fragilità della condizione umana: è il confine che divide il campione dalla nullità, il bene dal male, la vittoria dalla sconfitta.
Se segni non sei nessuno, hai vinto per il caso, per la fortuna, che ama gli audaci, l’eroe, ma la storia è beffarda, ogni tanto accade il contrario e tocca, quindi, ai deboli, al misero, soprattutto nel calcio, che è uno sport democristiano: pieno di cose incomprensibili. Negli altri sport vince sempre il più forte, mentre il calcio è quello più vero, il meno sportivo, collettivo.
Nel calcio di rigore vedi la chiamata: un uomo che prende il pallone e davanti ha un altro uomo, vedi la singolar tenzone. Quel momento ti dice come vanno le cose nella vita: puoi creare i presupposti affinché qualcosa accada, puoi attaccare per tutta la partita, ma poi nella vita va come capita e ti possono parare il rigore, o segnare al primo contropiede.
Il grande assunto sulla vita è proprio che essa è mistero e non ci capiamo nulla, non ne sappiamo nulla: che ne sappiamo della natura, della vita? Noi siamo ospiti che crediamo di sapere, ma, in realtà, questa è la manifestazione della presunzione umana che fa più pena.
Questo libro è, invece, l’educazione alla sconfitta: vi insegnano che vincerete, ma non è così. Anche i grandi eroi, le grandi menti, infatti, si sono resi protagonisti di grandi rovesci, come Napoleone, come Pasolini, la cui vicenda rappresenta tutta la miseria dell’Italia, tutta la miseria del cattolicesimo nella società.
Pasolini era un uomo che ha incarnato contraddizioni inconciliabili, uomo di una sacralità superiore che però era un pervertito, e la società non sa tenere le due cose insieme, non sa accettare l’uomo che è grande e misero, ma non ci sono uomini non peccatori.

Il calcio, quindi, potrebbe essere uno specchio della società?
Certo, assolutamente, già Camus e Pasolini lo avevano capito. Chi odia il pallone per una questione di soldi fa vincere la logica del disimpegno. Il calcio di oggi è senza valori, in mano a procuratori, commercialisti, che fa a meno della gente raccontata nel libro: siamo solo clienti, in una società dove un padre deve spendere 100 euro per portare il figlio allo stadio, che corrispondono a due giorni di lavoro per un operaio. Una volta, invece, era uno sport per il popolo, che faticava ogni giorno, però la domenica andava allo stadio, come i romani col Colosseo, ma la società si è pervertita e ha cambiato questo. Il calcio era uno sfogo dalla vita: se si vince o si perde non cambia nulla? Intanto facciamo che si vince.
Nel calcio c’era evasione, perché era una cosa di cuore: non volevamo niente dalla Roma, ma volevamo solo dare, andare e cantare, fare rumore. Oggi, invece, il calcio, che nasce come sport per i poveri, nel cortiletto, con i bambini impolverati che si divertono con 1 euro, è diventato un business, il potere economico ha aggredito anche questo, quando, invece, dovrebbe esserci lo stesso eroismo tra la partitella in parrocchia e la finale del Maracanã.
I giocatori di quella Roma, una volta smesso di giocare, sono andati a lavorare, adesso sono modelli: tutto questo ti fa capire come il calcio sia una lente di ingrandimento sulla società, se solo sapessero vederlo.
Il calcio ti dice come cambiano i valori nella società e, infatti, solo in paesi in via di sviluppo, come Argentina, Marocco, Brasile, c’è il pallone di una volta.

“Dentro”: quanto significa ancora oggi per te quello che forse è il tuo lavoro-simbolo?
“Dentro” è un libro straordinario, l’ho amato tanto. Lo amo perché è pieno di difetti: è un libro ottuso, autistico, viziato nella forma, introverso, contrariamente a “La gioia fa parecchio rumore”.
“Dentro” è un libro torbido, un dialogo interiore, la parte oscura di noi. Un libro dove il protagonista è vincolato ad asciugarsi i fanghi della sua palude interna e parla col linguaggio del sentire, senza l’amministrazione razionale della scrittura, “La gioia”, invece, è un libro emerso.
I due libri rappresentano momenti, linguaggi diversi, che esprimono cose diverse: “Dentro” dice del non detto, un libro che incute, che suggerisce, un libro subliminale, che sussurra, mentre “La gioia” è un libro che, invece di sussurrare, ti ripete le cose due volte.
Se li metti Insieme hai Sandro, tutti e due i suoi momenti: insieme sono una linea d’ombra di Conrad, anzi il cuore di tenebra del figlio di Conrad. Mentre “Dentro” è un libro di psicanalisi, che svela tante dinamiche dell’io, “La gioia” è sociale, collettivo, e parla di una stagione particolare, gli anni ’70 e ’80 a Roma, dove il popolo stava bene, dove eravamo tutti felici, dove non ti dovevi vergognare a casa di qualcuno.
In quegli anni, infatti, stavamo bene, anche se ci hanno detto che si stava male: eri felice, percepivi l’energia nelle persone, sentivi la vita, la voglia di vivere. Eravamo immortali. Ora, invece, noi siamo nel tracollo perpetuo: più alto è l’apice, più rovinosa è la caduta.

Una sola sfumatura può trasformare delle semplici lettere in un ricordo, una speranza, un’emozione: come si scelgono le parole giuste quando si scrive? Come comunicare il profumo della leggerezza e della spensieratezza di cui parli?
L’uomo ha una parte divina, che si esprime con il gesto inspiegabile dell’artista.
Il gesto della scrittura è potente, ha una potenza incredibile di fronte a cui c’è il silenzio, perché crea materia esattamente come l’incontro tra le dita di Adamo e Dio.
L’arte parla da sola: la scrittura infonde nella materia un’anima divina, una cosa sacra, come faceva Michelangelo con martello e scalpello nei freddi blocchi di marmo.
Scrivere è un gesto divino, definitivo sopra ogni categoria, insuperabile concettualmente, che impone forma e sostanza immediatamente: se nel mondo non conto nulla, quando scrivo, invece, non sono uno come gli altri, esattamente come Messi, che quando gioca non è uno come gli altri, mentre poi fuori siamo tutti uguali.
Quando scrivo, esercito un potere, vedo l’Universo che ruota intorno a me e ho un’altra comprensione della realtà che, altrimenti, non coglierei. Lo scrittore, infatti, è uno sguardo che coglie cose che vede solo lui e te le restituisce con onestà. Lo scrittore mette la mano nel buio, acchiappa qualcosa, la stringe e la tira fuori come nella tombola: in quel gesto c’è il libro.
Il talento è sacro. Tutti siamo alla ricerca di quel sacro, che nei libri di oggi non c’è più. È un vantaggio avere questo strumento, ma è la condanna di chi sa fare qualche cosa: il talento è una croce, ma quando lo eserciti, tutti zitti.

Qual è la potenza della scrittura?
La scrittura può fare tutto, è lo strumento più potente dell’uomo, ed ha determinato tutto: senza di lei, senza la Bibbia, Dio non esisterebbe. II libri di religione, ad esempio, sono libri incredibili perché la loro potenza sta nel fatto che fanno diventare cose vere quelle che non esistono.
La scrittura potrebbe cambiare la società, ma gli autori di oggi sono figli di scrittura borghese, autoreferenziale, vuota, che racconta le proprie miserie e non le proprie grandezze, ma le seconde non esistono senza la prime.
I libri di oggi sono pessimi, piccoli, volgari e offensivi per l’uomo: non ci si sa staccare da terra e volare, parlare al tempo stesso della merda e di Saturno, con un dito sempre a terra e un dito sempre in cielo: raccontare il basso e l’alto, in questo ordine.
Questi libri contemporanei fanno schifo, non se ne salva uno. I grandi ci sono, ma non li fanno conoscere: come Daniele Del Giudice, il più grande di oggi, che Ian McEwan, intervistato, definì “un evento” ai giornalisti italiani, i quali nemmeno lo conoscevano.
Oggi è una palude, dove le cose preziose sono poche e i libri più brutti vanno ai premi, quando, invece, non ci arricchiscono di dimensioni che non ci appartengono per colpa di grandi presunzioni.
La scrittura ricrea il mondo, ma oggi è affidata a pessimi scrittori, figli corrotti di questo mondo: il libro bello, educativo, che mette in discussione valori, viene messo in panchina, come i giocatori che discutono con l’allenatore.
La scrittura potrebbe cambiare il mondo, ma non è sostenuta, veicolata: rappresenta, invece, un mondo antimeritocratico, pieno di cattivi maestri, disonesti.

Sandro Bonvissuto

Sandro Bonvissuto

Mattia Mincuzzi
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Mi chiamo Mattia, ho 20 anni, e sono uno studente di Giurisprudenza a Roma. La mia passione per la scrittura è nata al liceo: ho cominciato occupandomi di temi argomentativi e di articoli di giornale, parlando di attualità e di politica. Tuttavia, con il tempo i miei interessi si sono evoluti e, sebbene un occhio rimanga vigile sull'attualità, ora mi concentro anche su racconti e poesie che partano dalle emozioni, dai sentimenti, che ritengo la vera matrice di tutto. Ho sempre amato la letteratura russa, in particolare "Il Dottor Zivago" di Boris Pasternak rimane il libro che continua a cambiare tutte le mie giornata, ma con il tempo hanno trovato spazio nella mia libreria i classici greci e latini e diverse letture di provenienza sudamericana. «Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualunque parte del mondo»: questa è una delle frasi che mi ispira maggiormente. Nessuno di noi è diverso dagli altri e qualsiasi cosa, anche quella che può sembrarci più distante, non è nemica, ma, spesso, solo un riflesso delle nostre paure, incertezze, che possono essere superate solo insieme, mai da soli. Contatti: mincuzzi10@gmail.com