Oggi, 25 novembre, avvio la mia rubrica “Stralci di vite” celebrando la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, con una trilogia di brevi racconti sulla femminilità, maternità, vulnerabilità.
MIRIAM Mirella è slanciata, carina, solare, fresca nei suoi 22 anni, ma il dolore l’ha già segnata in maniera indelebile. Da poco ha perso sua mamma, a causa di un cancro particolarmente aggressivo e fulminante.
Mirella non si dà pace per non essere stata presente alle ultime parole della madre, il papà le ha detto che sono state rivolte a fare pace con i parenti, anche se ci sono cose poco chiare nella sua famiglia, di cui non si parlava, e che lei stessa aveva spesso evitato di approfondire fino ad allora. Non sa chi potrebbe aiutarla a capire e, ora che la mamma non c’è più, capisce che proprio da lei non potrà avere alcuna spiegazione.
Di domande, ora, se ne formulano tante nella sua mente, che vorrebbe poterle rivolgere, anche se, in definitiva, pensa che ci vorrebbe qualcuno di estraneo e neutrale per capire, ma chissà se lei, poi, vuol davvero mettere insieme tutti i pezzi di quello che è stato.
Ricorda gli ultimi mesi, vissuti come in un incubo, culminato con l’avvio dell’agonia. Accanto a lei, sempre presente il suo devoto Argo, che lei adora, come tutti gli animali domestici, con i quali ha un rapporto di intesa profonda. Vedere il suo cane, però, che non entrava più nella stanza della madre sofferente, negli ultimi giorni, è stato avvilente. Si consola pensando che così fanno questi animali, quando uno del branco deve morire, lo isolano, così che possa morire da solo, fuori dal gruppo.
Da un po’ di tempo, la mamma era in terapia domiciliare con segni visibili del cancro sul corpo e scossa da dolori strazianti, Mirella girava per casa incapace di trovare pace, quell’ultimo giorno c’erano tante persone, ma lei, come il cane, non ce la faceva ad entrare nella stanza e a vederla così ridotta.
Argo gironzolava per casa, emettendo un latrato languido, le persone si avvicendavano accanto al letto della malata, il papà, con fare confuso, si muoveva di qua e di là senza un chiaro obiettivo, svariate sorelle della malata, invece, si davano da fare per assisterla e confortarla, Mirella e il fratellino erano entrambi disorientati, qualche altro parente preparava e distribuiva il caffè.
Mirella ad un tratto decide di sottrarsi alle persone che girano per casa, che l’abbracciano, le dicono frasi fatte. Si lascia andare ad effusioni col proprio cagnone, decide di portarlo fuori, saluta con un bacio la mamma prima di uscire e legge nel suo sguardo un sorriso tenero e comprensivo, che la consola.
Qualche anno prima c’è stato un evento che ha separato le famiglie d’origine dei suoi genitori, l’arresto di uno zio, e da quel momento la mamma non ne ha voluto più sapere di cognati e suoceri.
Forse qualcosa di brutto è avvenuto davvero, ma lei non crede che siano possibili tutte quelle cose che sono state dette, quello che scrivevano i giornalisti, notizie che avevano fatto sì che tutto fosse segnato dalla vergogna, mentre le indagini si allargavano a tutta la famiglia. Anche i genitori ne pagavano le conseguenze sul lavoro e per lei e per il fratellino era diventato un incubo anche il semplice andare a scuola, per gli sguardi indiscreti che si sentivano addosso.
E se la malattia della mamma fosse collegata a quelle brutte vicende? Ogni tanto riflette su questo cancro così feroce, che ha distrutto una vita in pochi mesi, in maniera inspiegabile.
Se fosse stato il dolore a farla ammalare? O se qualcosa di inesprimibile avesse corroso i suoi organi dall’interno, avesse fatto impazzire le cellule, fino a far prevalere quelle maligne? C’è qualcosa di inafferrabile, per lei, in tutta la vicenda.
Il cancro è partito dalla gola, chissà cosa ha dovuto forzatamente mandar giù la mamma, per ammalarsi proprio in quel punto, o quali parole trattenere. Poi si è esteso al petto, smorzandole il respiro, facendole mancare il necessario apporto di ossigeno, soffocando i suoi sentimenti. Poi ancora ha raggiunto la testa, creando scompiglio nei suoi pensieri, fino ad estendersi in metastasi per tutto il corpo, devastando quasi ogni suo organo, che non ha potuto più funzionare, o, comunque, non ha trovato quella sincronia necessaria alla sopravvivenza che rende l’organismo una macchina perfetta.
Dopo l’arresto del cognato, la mamma le aveva dato il divieto assoluto di frequentare quei parenti, ma ciò non aveva impedito che qualche volta, con la complicità del padre, lei si incontrasse con la nonna. Come si poteva troncare di netto il rapporto con chi si era sempre dimostrato affettuoso con lei.
Era adolescente e non riusciva a capire cosa fosse giusto o sbagliato, tutto era così sotterraneo e incomprensibile, i vecchi sentimenti si confondevano con le nuove vicende, ciò che era vero prima, diventava dubbio poi; il bene e il male diventavano sempre più indefiniti, a meno che non si facesse leva sulla fiducia, anteponendola a qualsiasi ragionamento. E lei aveva tanti ricordi della famiglia paterna.
In una di queste occasioni, in cui era a casa della nonna ed erano entrambe stese sul lettone a chiacchierare, mentre Fuffa, il gatto di quest’ultima, accucciato ai loro piedi, faceva le fusa per le loro coccole, all’improvviso si scatenò il putiferio al piano di sopra.
Qualcosa era esploso sulla porta di un appartamento ed era divampato un incendio, che aveva allertato tutti gli inquilini della scala, precipitatisi fuori dalle proprie case, coinvolgendosi l’uno con l’altro nella necessità di allontanarsi dal pericolo; arrivarono i vigili del fuoco, la polizia, fecero domande, fortunatamente non ci furono feriti, però in tanti si spaventarono.
Tutti nel palazzo dicevano che non si trattava di un incidente, ma di un avvertimento della malavita, come in alcuni luoghi sovente avviene, anche se era strano in un palazzo che godeva di fama rispettabile. Successivamente, Mirella venne a sapere che la casa incendiata apparteneva a persone che avevano testimoniato contro lo zio.
Su questo episodio, si era interrogata a lungo, entrando in un dilemma irrisolvibile, poteva mai essere che lo zio mettesse in pericolo l’incolumità della madre e della nipote, solo per spaventare qualcuno? E se le cose avessero preso un’altra piega, non avrebbe poi avuto degli scrupoli? Le sembrava improbabile, ci voleva una ragione davvero molto importante per rischiare tutto ciò!
Lei, comunque, non riesce ancora a credere che siano vere proprio tutte quelle accuse infamanti, forse solo qualcuna poteva esserlo, però è anche vero che c’era stata una condanna e, nonostante questo, le cugine continuavano ad idolatrare il padre, decantandone lodi in maniera paradossale, e le pareti della loro casa erano coperte da gigantografie dello stesso. Tutto ciò le faceva provare un certo disagio misto a fastidio, che non sapeva spiegarsi.
Prima dell’arresto, Mirella non aveva mai notato nulla di strano a casa delle cugine, dove, di fatto, andava raramente, essendo un po’ più grande di loro. L’unica particolarità era il comportamento di Ladone, il loro cane, che le sembrava proprio bizzarro, ogni volta che metteva piede in quella casa era la stessa storia, il cane continuava a ringhiare irrequieto, anche con lei, nonostante il suo feeling particolare con gli animali, lo dovevano addirittura chiudere in una stanza, e anche da lì continuava ad abbaiare e a incutere terrore.
Ora che la mamma non c’è più, in casa sono rimasti in tre, il papà ci sta poco, dice che ha bisogno di distrarsi e Mirella sente tutto il peso delle responsabilità su di sé, visto che il fratellino è ancora piccolo. Spesso deve preparare la cena anche se non ne ha voglia, quella peste combina un guaio dietro l’altro e vorrebbe sempre giocare, non la ascolta, solo la mamma aveva la facoltà di mettere ordine tra tutti loro.
Mirella a volte si infuria, ad esempio stasera, dopo l’ennesimo battibecco tra i due, molla tutto, minaccia di non cucinare più, va a preparare solo la ciotola per Argo, dicendogli che lui è il più buono di tutti e poi si lascia andare sul divano, proprio accanto alla foto della madre, su cui sofferma il suo sguardo, e rimane a fissarla languidamente.
Dopo poco arriva il fratellino, imbronciato e un po’ pentito per i capricci fatti, vuole sapere cosa deve fare, discutono ancora un po’ rimproverandosi reciprocamente di qualcosa e, alla fine, decidono insieme di ordinare la pizza; in quel momento anche il padre annuncia per telefono un cambiamento di programma, rientrerà a breve, e Mirella ne approfitta per dirgli di prendere le pizze per tutti.
Questa volta Mirella può restare a guardare la televisione con il suo cagnone accoccolato sulle gambe e il fratellino poggiato sulla sua spalla.
Le piace ricordare com’era bello uscire con la madre per fare compere, vivere momenti di complicità e solidarietà, scambiandosi consigli sul look, quanto fosse piacevole avere qualcuno che potesse consolarla se era triste e comprende quanto tutto ciò ora le manchi.
Ora le è chiara la bellezza dei giorni in cui poteva essere figlia, anche quando il suo ruolo le richiedeva di opporsi alle decisioni materne e di lottare per ottenere permessi che le sue amiche conquistavano senza sforzo alcuno.
Non lo sa perché la mamma ha cambiato idea prima dell’ultimo respiro, lei non c’era ad ascoltare le sue parole e forse è proprio questo che la rattrista così profondamente, non essere stata presente, essere arrivata troppo tardi, giusto un attimo dopo il fatidico momento.
MIRIAM Rita ha una ciocca di capelli piuttosto brizzolata, ma ha deciso di non tingerla, vuole rimanere naturale finché riesce e, poi, pensa che in ogni capello bianco ci sia un evento significativo della sua vita, un insegnamento, un dolore, un passo avanti compiuto. Non sente il bisogno di nascondere la sua storia, ogni singolo pezzo ha la sua importanza nel renderla quello che è diventata oggi.
Qualche tempo fa, in una giornata lavorativa come tante, Rita ha ricevuto una comunicazione ufficiale, una convocazione per una testimonianza in Tribunale.
Sarebbe stato il preludio di un altro capello bianco, si era chiesta, ma era ancora impossibile dirlo.
Aveva capito subito, però, di cosa si trattasse, di una brutta storia di almeno un anno prima, nella quale fortunatamente non era sola, c’era una collega che aveva condiviso con lei lo spiacevole incarico professionale attribuito loro dalla Prefettura.
Lavoravano entrambe in un servizio pubblico che si occupava di minori, in genere facevano colloqui, consulenze, valutazioni sulla genitorialità. Raramente capitava quello che era accaduto l’anno prima.
Un ispettore della prefettura aveva contattato la struttura perché, nell’ambito di un’indagine riservata, doveva interrogare alcune minori e lo poteva fare solo in presenza di psicologhe.
Così erano entrati in contatto con loro un “Al Pacino” in versione Serpico e il suo fidato braccio destro; il primo brillante, scaltro, disinvolto, con capelli lunghi e barba disordinata che fanno tanto uomo vissuto, il suo alter ego, invece, aveva capelli corti, barba rasata, modi gentili, rispettosi, prudenti, insomma, tutto all’opposto, un tipo ordinario e preciso.
Tutti i tentativi di evitare il compito, appellandosi a cavilli deontologici e legali, erano falliti miseramente. Toccava proprio a loro, perché l’indagine si svolgeva nel territorio in cui operavano e, addirittura, in una zona “bene” della piccola cittadina.
Erano, quindi, arrivate le prime due ragazzine tredicenni da ascoltare, convocate dagli ispettori con un pretesto, insieme ai genitori.
“Serpico” e il suo aiutante avevano concordato molto sinteticamente come si sarebbero svolti gli interrogatori, ognuno in una stanza diversa in presenza di un ispettore e di una psicologa, quest’ultima col compito di tutelare il benessere della minore. Nessuna delle due professioniste aveva rivestito quel ruolo precedentemente ed erano entrambe preoccupate che i modi di fare degli ispettori potessero risultare troppo diretti e bruschi per le ragazzine; quelli spiegarono che avrebbero alternato la loro presenza a brevi uscite dalla stanza per consentire alle adolescenti di essere messe a loro agio e tranquillizzate da ciascuna psicologa.
La ragazzina assistita da Rita si mostrò fin da subito sintetica e telegrafica, non le si cavava nulla di bocca, non aveva notato alcun dettaglio inconsueto a casa della compagna, comunque l’aveva frequentata poco, poi era passato tempo e non ricordava.
Nell’altra stanza, invece, ci fu la rivelazione, l’ispettore entrava ed usciva, i volti erano corrucciati e la tensione cresceva a dismisura di minuto in minuto. Ad un certo punto la psicologa fu costretta a chiedere all’ispettore di fermarsi, perché le dichiarazioni erano già più che significative, non c’era bisogno di ulteriori dettagli…il papà della sua amica la chiamava in camera da letto, la accarezzava, lei si ritrovava bagnata, lui, poi, la faceva lavare nel bagno.
La ragazzina, prosperosa, ma ancora ingenua, si era fatta tutta una vampa e piangeva. La madre, fuori al corridoio, cadeva dalle nuvole.
Tutto ciò bastava per procedere ai successivi passaggi e l’indagine proseguì con altri ascolti di minori, in altri appuntamenti concordati tra le due istituzioni. Stesso canovaccio, stesse reazioni, stesse conseguenze.
Sempre due stanze diverse, sempre un ispettore e una psicologa. Di nuovo momenti dentro e fuori la stanza da parte dell’ispettore di turno, quindi pause e poi ancora domande.
L’aria era sempre pesante in queste occasioni, non solo per gli odori forti, la tensione si tagliava col coltello, alcune ragazze erano molto abbottonate e diffidenti, evidentemente spaventate dalla risonanza che aveva avuto la loro frequentazione di quella casa.
Qualche volta emergevano dettagli scabrosi, che suscitavano conferme dei sospetti, altre volte, nonostante la fatica di accogliere e far sentire protette le ragazzine, non veniva fuori nulla di significativo. Apparivano rigide e stereotipate nel ripetere pappardelle che sembravano imparate a memoria, le versioni coincidevano nel dire poco o nulla.
Man mano che l’indagine procedeva la sensazione di “Serpico” e del suo collega era che le ragazze fossero preparate e, quindi, le risposte non più spontanee. Gli ispettori non avevano alcun dubbio sullo svolgimento degli interrogatori, che diventavano sempre meno significativi, man mano che le voci si diffondevano nella piccola cittadina, cosicché proseguirono l’indagine per altre vie.
Rita, distaccandosi da quei ricordi burrascosi e stringendo tra le mani la convocazione per la testimonianza, quel giorno, girava di stanza in stanza in cerca della sua collega per condividere la notizia, sicura che anche lei si trovasse nella stessa situazione e che la convocazione fosse un atto di routine.
Scoprì subito che non era così, visto lo stupore dell’altra, che non ne sapeva nulla e non aveva ricevuto alcuna notifica. Il primo pensiero fu che sarebbe arrivata presto anche a lei, altrimenti non avrebbe saputo proprio come spiegarsi la situazione.
L’agitazione andava impossessandosi gradualmente di Rita e cresceva in misura esponenziale man mano che, nei giorni successivi, non accadeva nulla di quello che lei si aspettava; si sentiva sempre più isolata e confusa nell’affrontare l’imminente udienza in tribunale.
Ogni tanto si confrontava con i colleghi, qualcuno era solidale, cercava di tranquillizzarla sul fatto che non ci fosse nulla da temere, poi ognuno veniva preso dalle sue incombenze e metteva da parte la questione.
La maggior parte di loro sembrava non notare che stava avvenendo qualcosa di poco ordinario e lei stessa, pur sentendosi turbata, tendeva a ridimensionare la questione cercando di non alimentare in se stessa eccessive preoccupazioni.
La stima dei colleghi si esprimeva con attestazioni del tipo: “andrà tutto bene” e pacche consolatorie sulle spalle, ciò nonostante lei continuava a sentirsi disorientata.
Quando le capitava di guardarsi allo specchio, intravedeva il ciuffo di capelli che si sbiadiva sempre più e si allargava, qualche capello cadeva con estrema facilità, ne spuntava uno completamente bianco, elettrizzato, che sparava verso l’alto.
Intanto i pensieri si affollavano nella sua testa ed era faticoso stabilire un programma d’azione.
Tutto aveva un sapore amaro di ignoto e puzzava di pasticcio.
Perché solo a lei la convocazione?
Rita doveva darsi da fare, cercare informazioni più dettagliate, e fu così che scoprì che la sua testimonianza era richiesta dal difensore dell’imputato, pareva che una delle ragazzine ascoltate avesse accusato una persona diversa dall’indagato, mentre il poliziotto era fuori dalla stanza e solo lei presente.
Senza rumore, come un’arma chimica che ti corrode subdolamente dall’interno senza allertare con un boato, con del fuoco o del fumo, ma tutto insieme, nella maniera più silente possibile, si apriva uno squarcio nella sua memoria, dove tutto sembrava poter essere possibile.
Rita era perplessa, non ricordava con precisione, ma pensava che quanto meno si sarebbe accorta di una rivelazione del genere, non le sembrava un dettaglio che potesse passare inosservato.
D’altra parte, questo lo ricordava bene, la ragazzina in questione era stata più che telegrafica e chiusa, ma se lei non avesse capito o sentito qualcosa? Se la ragazza l’avesse solo sussurrato? Se si fosse espressa male?
Oppure avrebbe potuto essere un’espediente, l’estremo tentativo di un avvocato scaltro per invalidare le procedure che avevano portato al processo in corso.
Brutta storia per Rita. Era confusa, disorientata, si faceva assalire da mille dubbi, inconfessabili. Nello stesso tempo non riusciva ad immaginare altre vie percorribili al di fuori del presentarsi e rispondere alle domande che le sarebbero state fatte.
I giorni fino all’udienza diventavano uno stillicidio, un continuo rimuginare attorno a quelle parole, i capelli si sfibravano e cadevano, si interrogava assillantemente su quel ricordo così sbiadito e sfuocato.
Passava dalla convinzione di aver sbagliato tutto all’assurdità di questa ipotesi.
Possibile che lei non avesse dato rilevanza ad una cosa così importante?
Possibile che le fosse sfuggita?
Possibile che si stesse costruendo nella sua mente una verità che non era mai esistita, un’ipotesi improbabile?
La sua collega, cogliendo il suo turbamento, le fece notare, con semplicità, che, se mai ci fosse stata qualche rivelazione, di sicuro lei l’avrebbe condivisa almeno con i colleghi; ipotesi più che ragionevole, ne avrebbe di sicuro parlato, se l’avesse percepita.
Intanto i giorni passavano lentamente ed inesorabilmente verso la data fissata, momento in cui non ci sarebbe stato spazio per alcun dubbio.
MIRIAM Amelia è una vera forza della natura con tutti i suoi chili di troppo, una voce squillante e quell’espressione un po’ sfacciata, sempre sicura di sé; sul suo volto passano le più disparate emozioni, dall’entusiasmo alla disperazione, in tutte le sfumature possibili, accompagnate da un arrossamento delle gote, che a tratti aumenta e a tratti sfuma.
Lei è una che parte in carica in presenza di un minimo segnale positivo, ma è capace anche di rallentare, all’occorrenza, o di deviare strada al momento opportuno, quando si rende conto che si trova in un vicolo cieco, insomma è il tipo che riesce a trovare un’opportunità in ogni frangente.
E’ una vera combattente, un vulcano in piena eruzione, sempre all’inseguimento di un traguardo da raggiungere.
Ha 21 anni ed è una giovanissima madre in grande difficoltà economica, con una famiglia che l’ha rinnegata nei momenti più critici e anche ora continua a non sostenerla, nonostante la sua salute precaria.
La sua vita scorre, tortuosa, ai margini dei margini.
A 14 anni è stata collocata in una Casa Famiglia, a causa di gravi contrasti familiari.
Prima di tutto ciò, per i suoi familiari, era, più di ogni altra cosa, una bugiarda, infatti nessuno di loro le ha mai creduto.
D’altra parte ha tentato anche di ritrattare quello che aveva detto agli ispettori, almeno ci ha provato, dopo aver ricevuto pressioni dai familiari della sua compagna di classe; era ingenua allora, ha accettato i regali che le facevano, scarpe e felpe di marca, che non avrebbe mai potuto permettersi nella sua condizione, ha accolto le loro promesse, addirittura le hanno mandato una lettera che lei doveva solo copiare e firmare, con su scritto che era pentita delle cattiverie dette e che era tutto inventato. Ma non è bastato. Le sue prime dichiarazioni, avvalorate da altri dettagli emersi durante le indagini, hanno continuato a fare testo.
Certo lei era una bambina libera, non aveva molti obblighi o restrizioni a quel tempo, stava poco a casa, il papà non lo aveva mai conosciuto, non ne aveva neanche il cognome, questo era stato il primo voltafaccia della sua vita, di cui non aveva memoria, frutto di chissà quale esperienza sfortunata della madre, giovanissima ragazza madre ai margini della società.
Era stata, per lei, una mamma sufficientemente buona fino ad un certo punto, sostenuta dai servizi assistenziali che avevano costruito una rete attorno a loro due; gli operatori sociali avevano preso a cuore la situazione, permettendo alla bimba di crescere sana e circondata da attenzioni fondamentali per il suo sviluppo. Proprio grazie a questo nutrimento emotivo, probabilmente oggi è diventata quello che è, solida e combattiva, pur nella precarietà da cui non riesce ad emanciparsi.
Tutto era andato bene, infatti, fino a quando la madre si era sposata e aveva avuto altri figli, da quel momento lei si era sentita messa da parte ed erano iniziati i litigi violenti.
Piuttosto che rimanere a casa sua, dove si sentiva rinnegata e dove, di continuo, si urlava e si lanciavano oggetti, si prendeva tutte le libertà possibili, cercando altrove l’attenzione che le mancava, così spesso preferiva stare a casa delle compagne di scuola.
Il vicinato, pur se abituato a sentire e a vedere scenate, ogni tanto chiedeva l’intervento degli assistenti sociali. Per questo, dopo svariate segnalazioni, ad un certo punto la soluzione migliore risultò quella di allontanarla dalla famiglia e inserirla in una struttura protetta.
Se fosse stata lei a non andare bene, o la madre, non era chiaro, di sicuro la relazione tra loro stava diventando elettrica ed esplosiva.
A meno che non c’entrassero anche quelle dichiarazioni prese a tradimento, nel corso delle indagini su quello che avveniva a casa delle sue compagne di classe, ma all’epoca nessuno collegava le due situazioni, che sembravano viaggiare su binari paralleli, nettamente separate l’una dall’altra: la sua ribellione in casa e le dichiarazioni rese in quell’indagine scomoda, considerate dai parenti categoricamente menzognere.
L’allontanamento da casa aveva confermato il tradimento familiare nei suoi confronti e l’aveva messa ancora più nell’angolo, rispetto ad una vita che era già molto periferica.
Fu facile per lei innamorarsi, in una situazione del genere, sentirsi desiderata, finalmente importante per qualcuno, e così era anche rimasta presto incinta, nell’illusione di costruire una famiglia, come non erano riusciti a fare i suoi genitori. Da questo amore delicato e fragile, venne alla luce il piccolo Alessandro.
Il bambino rappresentò per lei la cosa più bella e creativa che avesse potuto desiderare, nonostante il precoce dileguarsi del papà di fronte alle nuove responsabilità; Amelia ci mise un po’ di tempo a rendersene conto, dopo aver dedicato tutte le sue energie a sostenere i suoi incerti tentativi di essere presente.
Anche lui, come i suoi parenti, veniva meno nel momento più critico e delicato, proprio quando ce n’era più bisogno!
Nel frattempo c’era stato anche il processo, l’avevano convocata per la testimonianza, ci era dovuta andare, senza che alcun familiare si costituisse parte civile per lei.
Oggi, che sono passati degli anni, si rende conto del pericolo, si finisce pure ammazzati per cose simili, soprattutto in luoghi dove vige l’omertà, laddove ci sono precise regole da rispettare, dettate dalla malavita organizzata, che si sostituisce allo Stato; non pensa neanche lontanamente di chiedere il risarcimento danni cui avrebbe diritto, dato l’esito finale del processo, meglio rimanere nell’ombra e viva, visto che ora ha un bambino e questo bambino ha solo lei su cui contare.
Certo, il suo timore è che glielo tolgano, perché è giovane, non ha mezzi, l’hanno valutata e rivalutata, se è una buona madre, e su questo non c’è dubbio, il problema sono i soldi, la casa, il lavoro, qualcuno di famiglia cui appoggiarsi in occasione di imprevisti e lei non ha niente di tutto ciò.
Fino a 18 anni ha avuto educatori, psicologi, assistenti sociali che si occupavano e preoccupavano di lei e del bambino, è passata da una struttura all’altra, da quella per ragazze madri a quella per donne vittime di violenza.
Con la maggiore età, più di una volta, si era tentato di farla rientrare in famiglia, ma qualcosa era sempre andato storto, riproponendosi litigi e minacce; Amelia sentiva che in quella casa non c’era posto per lei, anzi proprio nella testa della mamma non c’era spazio per lei e per il piccolo; c’erano altri figli, oramai, importanti e legittimati nel loro ruolo.
Verso di lei, invece, solo critiche, insofferenza, minacce sul futuro incerto, ricatti sul ricorso ai servizi sociali, quasi fossero una punizione, la sua condanna.
Per questo, poi, era sempre rientrata in Casa famiglia, accumulando fallimenti su fallimenti.
Qualcuno che conosce bene la sua storia e si prende cura del suo benessere le ha suggerito l’idea che tutto questo possa essere collegato alla sua testimonianza, e che la sua stessa famiglia potrebbe aver ricevuto minacce o, peggio ancora, regali, anche più grandi di quelli che aveva ricevuto lei.
Forse avevano avuto semplicemente paura, magari ancor di più di quanta ne aveva provata lei stessa e, proprio per questo, nel corso di appelli e diversi gradi di giudizio, che si erano protratti nel tempo, avevano preso le distanze, isolandola e screditandola.
Da un po’ di tempo è stata dimessa dalla Casa Famiglia, nella relazione degli operatori si diceva “per favorire una concreta autonomia con la ricerca di un lavoro” mentre il bambino è rimasto lì, e questo Amelia non riesce proprio a sopportarlo.
Ale chiede continuamente di lei, non capisce il motivo di questa separazione, forse si sente abbandonato.
Lei si è data da fare, ha iniziato a fare la cameriera, ha cercato di tollerare il distacco, ma, nel frattempo, vedeva il suo piccolo bistrattato dagli operatori, si sentiva sostituita nel suo ruolo e anche trattata sbrigativamente; il dolore è stato davvero lancinante, la sua priorità è sempre stata lottare per ricongiungersi al bambino e garantire la sua presenza costante accanto a lui. Non vorrebbe mai che lui si sentisse rifiutato, come è capitato a lei.
Poi sono arrivati gli svenimenti, la debolezza, ha dovuto fare gli accertamenti e le hanno diagnosticato questa malattia progressiva.
Come farà ora a cavarsela?
Rischia seriamente che il suo bambino venga dato in adozione, proprio per la precarietà della sua situazione e per l’assenza di una famiglia che la sostenga, atteggiamento che non si modifica anche con una diagnosi così seria. Ancora una volta, per lei, si tratta di scomparire all’ombra dell’ombra, in quella zona in cui sei invisibile anche a chi condivide il buio con te.
All’epoca della scuola elementare, quando accaddero quei fatti raccapriccianti, lei in fondo non aveva capito niente, era una bambina e pensava che quelle carezze, quel modo di toccarla fossero la testimonianza dell’affetto di un padre che non aveva mai avuto.
Lui era il papà della sua compagna di classe, spesso si vedevano a casa sua, dove non c’era mai la mamma o altri adulti, ma sempre un bel gruppo di amichette.
Lì tutto era permesso, tutto era bello e libero, abbondavano biscotti, gelati, caramelle, e ogni richiesta veniva esaudita. Solo una cosa era proibita ed era una stanza sempre chiusa, nella quale c’era qualcosa di minaccioso, si sentiva anche abbaiare un cane, sembrava quasi indemoniato, ma era facile non pensarci con tutto quello che luccicava attorno come prezioso.
Le risate delle bimbe squillavano fragorosamente, durante le sfilate di moda che facevano in gruppo, era divertente giocare a fare le donne con l’abbigliamento sexy e gli apprezzamenti di quel papà, che le trattava proprio come se fossero davvero grandi.
Poi a turno lui ne sceglieva una da portare nella sua stanza e le altre continuavano a divertirsi, in buona fede, poiché quello che accadeva appariva l’unico modo di ricevere attenzione da parte degli adulti, di sentirsi speciali e importanti, per lei era semplicemente l’unico modo per uscire dall’ombra.
