“Paese che vai…”| di Luciana Carioti

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“Ogni anno, il due novembre, c’è l’usanza per i defunti andare al cimitero…”

Recita così “A’ Livella” del grande principe Antonio De Curtis, in arte Toto’. In effetti, a Napoli, la vigilia del giorno della commemorazione dei defunti è un giorno particolarmente triste. Si consuma una cena veloce e la sera si va a letto presto perché il giorno seguente ci si reca al cimitero per far visita ai cari estinti.

In realtà già fin dall’Ottocento, il due novembre di ogni anno, il popolo napoletano accorreva numeroso ai cosiddetti “Giardinetti”,  degli ampi spazi di verde circondati da un muretto su cui venivano adagiati, spesso anche in piedi, i corpi disseccati dei defunti tirati fuori dai sacrai, un rituale che, anche se all’apparenza un po’ macabro, rappresentava un momento di contatto diretto con i congiunti.

Lungo le vie del centro storico di Napoli si accalcavano i “torronari”, venditori ambulanti di dolci, ossa e crani in pasta di zucchero o in pasta di mandorle.

Avevo solo sei anni e la commemorazione dei defunti e l’Epifania, rappresentavano le feste tradizionali più particolari tramandatemi da mia madre, nata e vissuta a Napoli fino all’età di ventidue anni e trasferitasi a Palermo dopo le nozze con un palermitano, mio padre, il quale aveva sposato ben volentieri anche le usanze partenopee della consorte.

Per il popolo napoletano, infatti, così come il due novembre è un giorno molto triste in cui i bambini seguono i genitori in questa lacrimevole ricorrenza, il sei gennaio, la festa dell’Epifania, è un giorno accolto con gioia, specialmente dai più piccoli. La  mia famiglia non perdeva occasione per trascorrere tutte le festività con i parenti a Napoli, specialmente le vacanze di Natale, dove la particolare atmosfera della festa riesce a permeare ogni angolo di questa splendida città. La notte del cinque gennaio era bellissimo visitare fino a tarda notte i mercatini rionali dove poter acquistare calze, dolci e giocattoli di ogni tipo.

Così per i miei genitori, che continuavano pertinacemente a mantenere le tradizioni napoletane anche in Sicilia, mentre il due novembre era un giorno di profonda tristezza, il più delle volte trascorso in preghiera per i propri cari dopo la lunga coda al cimitero, il sei gennaio era un giorno di festa particolarmente sentito e la stessa vigilia tutta la famiglia era in eccitazione per l’attesa della vecchina che durante la notte riempisse le calze appese agli angoli del letto con dolciumi e giocattoli.

Da qualche anno mio fratello, ormai grandicello, subiva con una sottile punta di invidia lo smisurato sfoggio di giocattoli da parte dei cugini o dei vicini di casa, quando la mattina del due novembre ci si svegliava con lo scoppiettìo delle pistolette a salve dei ragazzini del quartiere che si vantavano di aver magicamente  trovato il “cannistro” portato in dono dai parenti defunti e ricolmo di dolcetti, come i crozzi ‘i mottu, i pupatelli e i Tetù bianchi e marroni. Io mi limitavo ad assaporare qualche dolcetto offertomi dagli altri bambini, in quanto ancora troppo piccola per focalizzarmi sui giocattoli dei più grandi.

Tutto questo era un meccanismo perfetto, almeno fino a quando mio padre non convinse mia madre, che accettò suo malgrado, di porre fine a questa piccola “discriminazione” e festeggiare la ricorrenza secondo il costume palermitano.

Così la vigilia del due novembre ci mandarono a letto presto raccomandandoci di essere buoni ed ubbidienti altrimenti “i morti” non sarebbero venuti a portarci i doni. Ma mentre guardavo mio fratello dormire beatamente nel suo lettino, non riuscivo a chiudere occhio, perché l’idea della presenza di un defunto, anche se si trattava del nonno,  nella mia cameretta mi terrorizzava parecchio. Passai gran parte della notte cercando di tenere gli occhi ben aperti, anche se le palpebre si fecero pesanti e ad una certa ora della notte crollai.

La mattina seguente riaprii gli occhi, svegliata dalle urla di gioia di mio fratello che aveva già preso possesso dei suoi giocattoli, mi voltai lentamente notando di fianco al mio lettino un enorme cesto pieno di leccornie di ogni genere, una bambola di zucchero che sembrava guardarmi da qualsiasi angolazione e un enorme bambolotto che piangeva se gli si toglieva il ciuccio.

Trovai tutto molto inquietante ed iniziai a piangere senza sosta, la mia reazione fu inaspettata e talmente sconvolgente da costringere mio padre a confessare la vera identità degli autori del gesto, il tutto sotto lo sguardo canzonatorio di mia madre che alla fine riuscì ad addolcirmi con un assaggio di uno dei miei deliziosi Tetù.

Luciana Carioti