Cosa vuol dire “attendere” | di Beatrice Bargiacchi

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Marta guardava il cielo e sognava. Dentro le sue quattro mura, immersa nel suo piccolo giaciglio di cemento, restava affacciata alla finestra e fissava rassegnata il mondo esterno che scorreva. Si era abituata a vivere rinchiusa. Lo aveva accettato, ormai. Ma le pareti le sembravano sempre più strette e il tetto pareva afflosciarglisi addosso. Perciò si sedeva sul davanzale ogni giorno, a osservare quella vita, nebbiosa e sospesa, che intravedeva fuori. Le nuvole avevano la forma di elicotteri e il sole sembrava un pallone da spiaggia, pronto da calciare. Il vento scompigliava gli abeti, che ondeggiavano come danzatrici del ventre. I tetti delle case, in lontananza, rivestivano i profili delle colline, come le conchiglie sul bagnasciuga che lei amava raccogliere quando andava al mare. Gli echi di qualche risata, alle volte, emergevano dal silenzio e le arrivavano all’orecchio. Ma era impossibile capire da dove venissero, tanto erano rarefatte e stropicciate. Lontane.
E, appena se ne andavano, il mondo riaffondava in un sonnacchioso silenzio. Sembrava un magnifico dipinto, immobile e immutabile. Era strano pensare che, mesi prima, lei ci viveva dentro. Quel tempo trascorso fuori dalla sua casa, adesso le pareva uno strano sogno, il ricordo di un’esistenza appartenuta a qualcun altro. Ora, dentro al suo bozzolo di mattoni e tegole, i giorni le sembravano inerti, in attesa.
Ma sapeva che alla fine se le sarebbe riprese, quelle nuvole a forma di elicottero. Avrebbe raccolto le conchiglie simili a tetti e calciato il pallone del sole. Avrebbe di nuovo fatto tutto questo. E molto di più.
E quindi, nel frattempo, doveva solo attendere, dondolandosi nel suo alveare di sogni, e raccogliendo con le orecchie le risate, che sbocciavano come fiori rari e bellissimi da qualche parte. Lontano.

Beatrice Bargiacchi