E’ di pochi giorni fa la notizia dell’annullamento con rinvio, da parte della Suprema Corte di Cassazione, del provvedimento con cui la Corte di Assise di Bergamo, quale giudice dell’esecuzione, aveva dichiarato inammissibile la richiesta dei legali di Bossetti di sapere le modalità per l’esame dei famosi reperti considerati la “prova regina” per la condanna definitiva all’ergastolo del muratore di Mapello.
La notizia, rimbalzata sulle maggiori testate giornalistiche, ha riaperto un dibattito, mai del tutto sopito, che merita una riflessione, non tanto sul tema “Bossetti innocente/Bossetti colpevole”, ma sul “metodo” che oggi stabilisce le “regole del gioco” da seguire durante il processo penale per arrivare ad un verdetto di colpevolezza “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Il dibattito serrato originatosi dall’affaire Bossetti, infatti, verte sul metodo processuale ancora vigente in Italia, un metodo definito ancora “misto”, in quanto intenzionalmente diretto e proiettato verso il modello accusatorio, Costituzionalmente previsto, ma non del tutto libero dai legami col precedente modello inquisitorio, di ultrasecolare memoria.
E’ noto a tutti che, per secoli e secoli, il modello processuale per antonomasia è stato quello inquisitorio, che posizionava la pubblica accusa in un ruolo superiore rispetto alle altre parti (la parte offesa e l’indagato/imputato), con la cultura del sospetto sufficiente a promuovere l’azione giudiziaria, sorretta dal principio di colpevolezza dell’imputato, il quale doveva dimostrarsi, se accusato, innocente di fronte al giudice inquisitore. Un metodo che, giudicato dal punto di vista dell’efficienza, ovvero dei casi “risolti”, poteva anche dirsi perfetto, non fosse altro che si prestava a gravi rischi di tutela della persona umana. E’ noto a tutti che il Fornareto di Venezia, giustiziato per omicidio, era innocente. Negli anni più recenti, ovvero nel XIX secolo, nei “civilissimi” Stati Uniti, un ragazzino di 14 anni (guarda caso di colore), fu giustiziato sulla sedia elettrica salvo, dopo anni, uscire la prova della sua innocenza, che egli aveva sempre gridato.
E’ con la Costituzione Repubblicana che, nel sancire il dettato del cosiddetto “giusto processo”, si apre la strada al modello accusatorio, modello che, in teoria, vede la pubblica accusa relegata al “giusto” (ovvero, per legge) ruolo di parte paritetica alle altre due avanti un giudice che deve essere “terzo” ad esse. In questo modo, spetta alla pubblica accusa dimostrare che l’imputato è colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio perchè il principio di colpevolezza viene sostituito dalla presunzione di innocenza. Ne deriva che, come da principio programmatico costituzionale, le prove di colpevolezza devono essere formate in dibattimento attraverso il contraddittorio paritetico tra le parti, che devono “giocare” la partita con le medesime armi, senza che una di esse, l’imputato, le veda spuntate ab initio. Si passa, quindi, dall’interrogatorio (volto alla confessione) al contraddittorio (volto alla raccolta delle prove).
Questo in teoria, come principio programmatico costituzionale. Ma sappiamo bene che dalla teoria alla pratica, spesso, vi è una forbice, quella forbice che pare essere stata resa evidente proprio dalla vicenda che ruota attorno alla figura di Bossetti.
Ciò che gli avvocati del muratore di Mapello contestano, infatti, è la negazione di una perizia terza sul DNA che si considera la prova regina di colpevolezza del condannato, in quanto non necessaria perchè “l’esame è stato ripetuto in diversi laboratori e ha sempre dato risultati concordanti”. Anche perchè (sono gli avvocati di Bossetti a precisarlo) pare che il DNA nucleare sia stato esaminato solo dai RIS di Parma, e non da altri laboratori.
E questo è il thema decidendum di tutta la vicenda processuale: può l’imputato avere il diritto di verificare, mediante perizia terza, questi “risultati concordanti”?
Premesso che nessuno crede a complotti, connivenze, o atti di corruttela insiti alla magistratura o ai RIS, resta il fatto che, quando le indagini preliminari vengono svolte in assenza dell’indagato (perchè ancora sconosciuto), possono, in effetti (e senza malafede), essere sorrette anche da possibili errori metodologici i quali possono anche diventare “sistematici” se il metodo di ripetizione delle indagini, ovvero di verificazione delle stesse, resta il medesimo. A livello scientifico, si chiamano “possibili bias sistematici”. E’ una ipotesi, e come tale merita rispetto se vogliamo garantire all’indagato il pieno diritto alla difesa. Non è detto sia il caso di Bossetti, ma i legali di Bossetti ritengono che egli avesse avuto, in dibattimento, unico luogo di formazione delle prove a suo carico, il diritto di verificare se le indagini precedenti, condotte in assenza sua e dei suoi consulenti, risultassero indenni da vizi. Era un suo diritto costituzionale.
Ecco che, estraneandoci dal caso Bossetti, per allargare la riflessione sul modello processuale, al di là della responsabilità (che solo il collegio giudicante ha il compito di valutare), non si può non essere d’accordo sulla necessità che venga data al condannato, la possibilità di effettuare un contraddittorio sul DNA. Specie se, dato non irrilevante, stiamo parlando di una persona che sta scontando una condanna in via definitiva all’ergastolo.
Condivisibile appare la linea degli avvocati di Bossetti quando ritengono che tale diritto debba essere garantito ad ogni cittadino che diventi imputato, ben prima di una sua condanna in via definitiva, così che la condanna in via definitiva venga emessa nel rispetto del pieno diritto alla difesa.
Torniamo sempre al punto dolente di questa intricata vicenda: se le prove si formano in dibattimento nel contraddittorio tra le parti, tutte eguali avanti il giudice terzo, perchè l’imputato deve obbligatoriamente credere che le indagini precedentemente condotte dal PM siano esenti da vizi? Perchè non deve avere il diritto di verificare quei risultati che gli vengono posti dinanzi?
Ecco, in sintesi, i motivi per cui questo caso potrà aiutare tutti gli operatori del diritto a riflettere sulle misure da adottare per arrivare a garantire in maniera efficace il diritto pieno alla difesa, così e come prevede il modello accusatorio. Al di là di come si ritenga la singola posizione di Bossetti, ad oggi condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio.