Amiche ed Amici carissimi, oggi, affronto il tema del litigio con il partner, ponendo l’enfasi su un aspetto troppo spesso trascurato: la differenza tra offenderlo e disapprovare il suo comportamento.
Molto spesso, quando si litiga, si tende a non considerare questa sostanziale differenziazione, sferrando impulsivamente l’attacco alla persona, non di rado scadendo nell’insulto o peggio nell’offesa. Questo aspetto, oltre ad essere fuorviante ed inefficace, è pericoloso perché innesca un’interminabile escalation.
“Sei uno xxxxxx”, significa insultare od offendere – a seconda dell’espressione – la sua persona, mentre “non sono d’accordo con quanto hai detto o fatto, presuppone disaccordo concentrato su “quel” comportamento e genera apertura al dialogo chiarificatore.
Spesso si sottovaluta il potere delle parole, con il risultato di irrigidirci con la persona che amiamo. E, sappiamo bene, che questo atteggiamento non è privo di conseguenze.
Finita la lite, pare tutto “a posto”, ma non è così: abbiamo entrambi registrato, consciamente o inconsciamente, l’esserci accusati e/o respinti.
Quando ci riteniamo offesi, siamo inevitabilmente feriti. Quel che è detto è detto e a poco servono le scuse! “Oh, ma te la prendi per così poco!” soventemente esprime la “controparte”… Ma l’offesa, che ben si differenzia dall’insulto, non è oggettiva: è frutto della nostra percezione. E la percezione deriva dal nostro vissuto, ovvero dalle nostre credenze formatesi sin dalla nascita, attraverso l’educazione ricevuta dai genitori e/o dalle persone considerate di riferimento.
Ci offende una frase, magari di per sé non così grave perché, inconsciamente, è revocatrice di un episodio che ci ha colpito nell’infanzia, generando in noi una proporzionale reazione, apparentemente esagerata.
L’unico rimedio che conosco è l’autocontrollo. E’ solo questione di costante esercizio, sino ad acquisire tale tecnica come nostro atteggiamento mentale, che attueremo spontaneamente. E, fidatevi, se ci sono riuscita io, che sono un’impulsiva “indomabile”… può riuscirci chiunque. Chiunque si renda conto dell’importanza intrinseca nelle parole.
Una lite può essere furiosa, tuttavia circoscritta e rispettosa. Rinfacciare al partner “quella volta che…” accomunando alla momentanea diatriba vecchi risentimenti, ci priva della volontà di ricercare l’opportuna soluzione che richiederebbe immediatezza, conducendoci sull’insulsa via del brontolio. Già… l’inefficacia del brontolio, ovvero quel comportamento, per nulla incisivo, che scatena nel partner reazioni, più o meno grossolane, tuttavia sempre irrispettose ed intrise di sufficienza.
A completare l’incresciosa situazione, spesso concorre il non parlarsi per giorni. Poi, come si dice, “una volta sbollita la rabbia”, si riprende a parlarsi, spesso soccombendo al problema, che pertanto tale resta, con l’aggravante che ognuno ha cumulato un elemento di risentimento in più, “buono” per il prossimo litigio.
Altra caratteristica tipica del litigio “fuori controllo” consiste nel “non volerla dare vinta all’altro”. Me ne intendo… eccome se me ne intendo!! Fin da bambina ambivo ad avere l’ultima parola ed il bello è che ci riuscivo, anche se poi mi costava qualche castigo. Tuttavia, ne valeva la pena! Crescendo, ho istintivamente affinato l’astuzia: l’interlocutore, chiunque fosse, doveva anche sentirsi in colpa e, solo anni dopo, appresi che – inconsapevolmente – ponevo in atto una tecnica del “repertorio comunicazionale”: esprimere le mie sensazioni in merito ad un qualsiasi fatto, anziché accusare l’altro. Mi spiego: se accuso mio marito asserendo “tu mi hai fatto “questo”, “tu mi hai ferita”, ecc., gli offro la possibilità di negare o minimizzare il misfatto, con ovvietà di sterile controbattuta.
Ma se affermo “mi sento ferita dal tuo comportamento in merito a…, ho la sensazione che tu…”, non lo accuso, bensì mi limito ad esprimere un mio sentimento/sensazione che, come tale, è inconfutabile e, pertanto, insindacabile.
Mai scadere nel pianto, qualsiasi sia il tema della discussione: è umiliante per noi ed irritante per lui. No, le nostre lacrime non lo faranno sentire in colpa e neppure lo inteneriranno, il più delle volte penserà che siamo solo isteriche…
In conclusione, mi permetto di ribadire che saper discernere la persona dal comportamento è indispensabile al fine di un dialogo costruttivo e si spera anche contestualmente risolutivo. Tuttavia, se la situazione si complica, l’esasperazione è in agguato: procedere significa rischiare di esacerbare gli animi. Meglio optare per una pausa di significativo silenzio e chiedergli di riprendere l’argomento dopo aver recuperato serenità.
Un dialogo consapevole, privo di accuse, sufficienza e sfide, atto a comprendere e dirimere la causa del diverbio, accresce la stima…
Un abbraccio!
Daniela Cavallini