«Sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi… All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio».
Così scrive Marcel Proust e come potremmo dissentire?
Cucinare e mangiare in compagnia sono gesti sacri. Un alimento serve a unire, a permettere la condivisione, una pietanza stimola e offre il pretesto di un dialogo, crea legame, ma il cibo resta cibo e non può essere adoperato per fini architettonici se non in casi isolati e precisi.
Il cibo fortifica anche i rapporti delle persone che lo consumano insieme. Un detto recita che occorre mangiare grandi quantità di sale per conoscere una persona. Non si è d’accordo sulle dosi, chi parla di un chilo, chi di sette, chi di sette rubbi (che varrebbero 56 chili circa), ma il senso comune è che mangiando insieme ci si conosce. Ho visto relazioni finire per colpa del rumore emesso durante la masticazione; donne innamoratissime si sono rese conto dell’avidità del compagno osservandolo mentre si serviva dalla pentola per la seconda volta senza condividere, come se stesse mangiando solo.
Chi soffre di misofonia, così si chiama la sensazione di disgusto rabbia e fastidio che si prova nel sentire l’altro masticare ed emettere rumori (quali la suzione della lingua, il rumore dei denti che spezzano i cibi solidi, il chiacchiericcio impastato che certi cibi molli esercitano fra il palato e i denti) lo sa bene. Come scrivo nel mio libro Un sorso e un morso, se il nostro compagno di merende è molto rumoroso diventa praticamente impossibile mangiare insieme, è una cosa che dà sui nervi, e l’espressione non è a caso, poiché la misofonia è un disturbo del sistema nervoso.
Anche chi non ne soffre può comprendere che non sia piacevole sentir ciabattare la bocca degli altri commensali, o ascoltare l’imbarazzante aspirazione di brodi e sughi e, forse proprio per evitarci situazioni come queste, i genitori spendono ore di tempo a istruirci sull’importanza di non parlare con la bocca piena e masticare tenendola chiusa; purtroppo non tutti hanno avuto genitori saggi e qualcuno pare aver dimenticato quegli insegnamenti, ma resta il fatto che consumare un pasto insieme ad altri tocca corde davvero molto sensibili.
Ci sono persone che a tavola si esprimono come se stessero rubando, altre che devi insistere perché smettano di offrirti anche la loro parte. I più schizzinosi morirebbero pur di accettare un cibo che penzola dalla forchetta altrui, molti non toccano il pane già manipolato da altri e non sempre passarsi il vassoio degli antipasti è piacevole per tutti.
Cucinare, servire a tavola e mangiare non sono semplici operazioni domestiche, ma veri e propri test attitudinali verso la vita.
Chi non ama il prossimo non ama se stesso; diffida da chi dimentica di porgerti il piatto di servizio per il bis e si sbafa tutto senza nemmeno accorgersene. Presta attenzione anche a chi trangugia senza masticare, senza assaporare, senza commentare, anche solo mentalmente, il sapore che passa sulle papille gustative. Chi beve tutto d’un fiato, che si tratti di acqua o vino, commette peccato di ingordigia e a mio avviso questo è più grave di tante altre mancanze in cui è possibile incappare una volta a tavola. Mangiare con gli altri è una dichiarazione. Ci si svela senza nemmeno rendersene conto. C’è più intimità nel portare alla bocca un boccone di cibo in pubblico che a svestirsi.
Proprio per questo motivo la cerimonia che avviene quando si sta a tavola con altri diviene rito: se si festeggia in campo neutro è tutto più semplice. Ma se siamo invitati, abbiamo il dovere di rispettare i cibi che amiamo senza perdere di vista la generosità di chi ci invita, stando attenti a difenderci da ospiti invadenti che pretendono di farci assaggiare pietanze ripugnanti con la scusa della ricetta regionale e valorizzando quelli che potrebbero diventare i migliori ricordi della nostra vita.
A tal proposito amo ricordare il ruolo di Monsieur Arthens, il critico gastronomico che nel romanzo di Muriel Burbery Estasi culinarie del 2013, seguito nel 2014 dal celebre libro intitolato L’eleganza del riccio − da cui fu tratto l’omonimo film − si comporta da monarca della tavola. Despota, cinico e tremendamente egocentrico giudica chef stellati creando e demolendo reputazioni: è un cattivo vero, consapevole delle proprie meschinità e per nulla angosciato dal dolore che ha dispensato con la sua penna avvelenata, proprio quando la malattia lo conduce alla fine dei suoi giorni, sente che un sapore speciale gli sfugge e ne insegue il ricordo, ossessivamente, come fosse l’ultimo dei compiti della sua vita. Così ne definisce il valore: «è una pietanza primordiale e sublime che precede qualsiasi vocazione critica e che alle soglie della morte si manifesta come l’unica verità».
Caterina Civallero
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