Pensando a Leonardo Sciascia la mia mente si collega in modo naturale alla mia isola: la Sicilia. Sento molto vicino questo autore al modo di appartenere alla mia terra. Sciascia aveva un legame viscerale con la Sicilia ed era profondamente legato al suo paese, Racalmuto in provincia di Agrigento. Sciascia, ha voluto distaccarsi dagli stereotipi romantici e nazionalistici che raccontavano di una Sicilia come terra di dolore e di ingiurie subite, di folklore e di pena, ma ha voluto raccontare una Sicilia in grado di interrogarsi e criticare i suoi mali e quelli del mondo: una terra in ascolto che è a sua volta voce del mondo. L’8 gennaio si è celebrato il centesimo anniversario della nascita, di lui si è parlato tanto, ma la voglia di approfondire, rileggere reinterpretare e attualizzare il suo pensiero rimane sempre viva. Nel suo saggio Come si può essere siciliani, sul finire degli anni ’80, Leonardo Sciascia si faceva promotore di un’idea degli abitanti isolani curiosamente dualistica: divisi tra calorosa ospitalità ed ancestrale diffidenza, tra solarità ed inquietudine, secondo lo scrittore di Racalmuto i siciliani siamo il risultato dei processi e delle ferite storiche subite nel corso dei secoli. Una condizione storica che si è tramutata in un disagio esistenziale: così, ad esempio, quella che una volta si configurava come paura dei popoli invasori, adesso ha la forma di una sfiducia radicata verso la politica e in generale verso i governanti. Se aggiungiamo, poi, quell’ambivalente sentimento verso la propria terra natìa, percepita come una madre premurosa da cui è sempre possibile tornare e, al tempo stesso, come una soffocante compagna di vita da cui si cerca spesso di fuggire, quella che lui definisce: Sicilitudine, che, non a caso, condivide il suffiso –itudine con parole come gratitudine e solitudine.
Nel 1979, rilasciando un’intervista da lui scritta alla giornalista francese Marcelle Padovani, Sciascia la intitolò “La Sicilia come metafora”; lo stesso Sciascia che, una volta, affermò che tanto più è angusto il luogo dove uno scrittore si trova a vivere, tanto più potrà sperare di raggiungere l’universalità. E quale terra, per questa operazione letteraria, poteva risultare più adatta della Sicilia, circondata dal mare e separata, seppur per pochissimo, dall’intera Penisola? Sciascia non si è mai allontanato dalla sua terra d’origine ( mai più di un mese). Come afferma Claude Ambroise: “Lasciare la Sicilia gli è possibile solo in sogno. E se quel sogno, l’unico che diventi realtà, perché attuabile in Sicilia, fosse la letteratura? La letteratura come possibilità di staccarsi dalla Sicilia, pur rimanendo in Sicilia.” Sciascia si serve della letteratura e del giornalismo per dare sapore e sostanza alla realtà, alla cronaca e per volare verso mete lontane dalla sua isola. Dopo questa breve nota introduttiva, proverò ad approfondire la delicata realtà della Sicilitudine, tramite le parole e le opere di questo grandissimo scrittore, lo farò partendo dalle parole della figlia per poi analizzare lo stile delle sue opere e gli intrecci tra i diversi generi testuali e infine, parlerò delle affinità e delle differenze che caratterizzarono Sciascia e Pasolini, due grandi intellettuali “ fratelli lontani”. In un’intervista in occasione proprio del 100esimo compleanno del padre, Anna Maria Sciascia dichiara: “Essere stata la figlia di Leonardo Sciascia è l’esperienza più bella che possa capitare. Era un padre tradizionale, protettivo. Uno degli autori preferiti di mio madre era Federico de Roberto. Era un narratore curioso testimone delle storie locali. Lui le riprendeva e a sua volta le narrava come favole al nipotino Fabrizio. Parlava anche dei suoi romanzi, ma la prima a leggere i suoi scritti era mia madre. La casa era sempre piena di amici: il regista Francesco Rosi, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino e Giuseppe Leone. Parlavano di tutto: di letteratura, di arte e di cinema. Il tema ricorrente nelle opere di mio padre “erano i valori”. Quando Sciascia inizia la sua collaborazione con il quotidiano di Palermo, non ha ancora la fama di scrittore, il primo romanzo che gli regala la notorietà è: ”Le parrocchie di Regalpetra”. Il direttore del giornale di Palermo, Gino Cortese, intuì subito le grandi capacità dello scrittore e gli chiese una collaborazione che durò trentaquattro anni . Fu un collaboratore battagliero e proprio negli anni che vanno dal ’64 al ’67 Sciascia tiene una rubrica dal titolo Quaderno, a cadenza settimanale, in cui si esprime su argomenti vari. Questa rubrica ci consente di conoscere Sciascia nelle sue varie sfaccettature, senza mai perdere di vista, qual è il suo interesse principale, la Sicilia, ma dimostra anche un’apertura verso i problemi di tutta Italia anche perché lo stesso giornale è ben lontano dall’avere un’impostazione provinciale o periferica. Nei brevi articoli di quella rubrica sull’Ora ci sono già i suoi testi più famosi, come “La Scomparsa di Ettore Majorana” o “L’affaire Moro”. In poche righe Sciascia riesce a toccare attualità, storia e letteratura. L’interesse verso la realtà nazionale diventa fondamentale in altri articoli giornalistici, quelli scritti a partire dal ’69 per il Corriere della Sera, alcuni dei quali poi confluirono in una raccolta “ Nero su nero”. Negli articoli scritti da Sciascia si delinea ben presto la figura dello scrittore esordiente di valore, pieno di passioni, di ansie, di aspettative. Traspare il suo amore per la Spagna e nelle sue recensioni scrive il suo amore verso l’arte, e non solo per gli artisti siciliani ( A. da Messina, R. Guttuso, E. Greco…) E poi le sue preferenze e competenze in campo letterario, l’interesse per le tradizioni locali, per le problematiche politiche, economiche e sociali della sua Sicilia. Gli articoli giornalistici svelano oltre alla sua complessa personalità , anche uno Sciascia “mafiologo”, politologo e scrittore polemico. Leonardo Sciascia è stato il primo a raccontare cos’era la mafia ed a proporre le modalità per combatterla; ha scritto e pubblicato tanto nei giornali, ma non si può dire che amasse quel mondo, aveva ad esempio orrore per i refusi di stampa che sono inevitabili in un prodotto giornalistico che gioca sull’immediatezza e sulla velocità. Sciascia ha osservato che era l’unico a capire davvero Pasolini. Il libro “L’affaire di Moro” (1978) si propone sin dalle prime pagine come una continuazione di riflessioni pasoliniane. Nella Fondazione di Racalmuto vi è custodito un carteggio di Sciascia con Pasolini . Queste lettere che gli autori si spediscono raccontano di incontri, viaggi, comunicano emozioni per le letture fatte , per le riviste. Sciascia e Pasolini hanno continuamente riflettuto su due concetti: quello di verità e di realtà, nessuno dei due credeva che la verità potesse essere ridotta ad effetto retorico. Per entrambi la letteratura era quella menzogna che però smaschera la menzogna del potere. Per Sciascia la letteratura è fatta di oggetti eterni che alla verità si relazionano, anche se la verità è inappropriabile e lo è pure per Pasolini, entrambi credono infatti che nessuno possiede la verità. Il sogno di Sciascia era quello di fare il Cinema e ci riuscì in qualche modo realizzando dei documentari come regista. Leonardo Sciascia ci ha lasciato delle pagine di letteratura molto significative. Le sue pagine sulla giustizia, sulla politica, sulla condanna a morte sono a mio avviso, tra le più alte della nostra letteratura. Ma oltre che dalle parole Sciascia era affascinato dal silenzio delle immagini per cui i suoi saggi fanno i conti con l’immagine del volto o con il suo simulacro: la maschera che per lui è il luogo geometrico dove si prefigura il destino dell’uomo, dove si raccolgono e si manifestano contemporaneamente : il passato, il presente e il futuro. Anche il suo libro dedicato ad Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse, può essere considerato un ritratto e come tale vi è sottinteso il desiderio di autenticazione dell’uomo politico e lo sforzo di riconoscervi la verità oltre l’apparenza. Sciascia e Pasolini sono stati, dunque, due grandi maestri che ci hanno insegnato il principio della responsabilità. Sciascia ha avuto il coraggio di recuperare la favola con la quale non vuole certo mascherare la realtà, ma la favola sciasciana ha un realismo diverso perché pone l’attenzione su un dato etico. Sciascia si allontana dal naturalismo per approfondire un vero giuridico che è una forma di verità più complessa. C’è una parola che appartiene a Sciascia e Pasolini “ orrore” e cioè l’orrore per ogni forma di potere. Sciascia oggi più che mai dimostra la sua straordinaria attualità e ci lancia un messaggio bello e valido con la sua “ sicilitudine” quella di non perdere la speranza nonostante la paura. Come recita nel finale del Giorno della Civetta…” in Sicilia le nevicate sono rare… e che forse il carattere delle civiltà era dato dalla neve o dal sole, secondo che la neve o il sole prevalesse. Si sentiva un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente di amare la Sicilia: e ci sarebbe tornato.”
Antonietta Micali