Il periodo non è dei più facili per parlare di poesia, non parlano di poesia – secondo molti – le cose che ci circondano.
Si è da tempo celebrata la morte non solo dell’arte ma dell’introspezione sana e l’occhio rivolto verso sé è quasi sempre egocentrico – e malato per i più.
E allora scrivere, e scrivere poesia diventa una sfida, la sfida di una “rivelazione creativa”(Daita Martinez), di un mondo dove la terapia è la Poesia, un quadrifarmaco che allontana la morte, fa fruttare il dolore, non teme nemmeno di render conto al dio che ci abita, e apre gli occhi al dono che viviamo.
Il frutto di questa sfida nel tempo incerto è fra le mie mani, un piccolo gioiello: Lunario, di Sebastiano Adernò, un manufatto editoriale, di GaEle edizioni, realizzato con cura.
Apro la mia copia – numerata – e, oltre alla dedica preziosa che mi parla da vicino una lingua conosciuta, trovo la prefazione di Daita Martinez, che leggo attentamente, un’analisi articolata e ricca.
Lunario nasce in un mese, in una sorta di gara con un tempo vorace, e dentro ci trovi gli incanti e le maledizioni della vita in accostamento continuo:
“parole come
un tempo di piombo
da pescare a fondo”.
C’è un lunghissimo “spregiudicato novembre”, un novembre nella vita e della vita, c’è l’amore e il bacio lasciato sotto la porta; Lunario parla una lingua intensa, riscoperta, sacra.
Per scrivere si scava,
si scava e si va a raschiare
persino il sale di una lacrima.
Avrei voluto scrivere un articolo di presentazione ma sapevo e so che non è sufficiente perché in certa poesia trovi un rimando ad altro e non puoi fermarti a descrivere.
“Scrivere frusta il nervo” leggo una delle tante mattine in cui trovo un messaggio con un rigo, un verso abbozzato, ancora da mettere sull’incudine e lavorare con maestria, e il rigo, il verso sono sempre buoni, sono quelli di Sebastiano Adernò.
Scrivere è una necessità attorno a cui va costruita la diciplina del sé, la conoscenza del mistero che ci abita e che fa di noi quegli esseri sacri che troppo spesso disprezziamo, capaci di comunicare attraverso la sacralità del linguaggio.
C’è bisogno di Poesia, di farsi parola, di dare alla parola un senso che vibri nell’aria, di dare alla luce un linguaggio che squarci il buio, che illumini ancora la strada verso l’Uomo.
– Per me è come se fosse un esercizio, mi aiuta a fare chiarezza. Mi pulisce. Io so che non mi è possibile sempre, che esiste il buio, anche nella mente; così approfitto di ogni momento buono- mi dice Sebastiano.
– In una spirale virtuosa! Un po’ come un atleta dello spirito? –
– Più come un enigma da risolvere, non so mai cosa scriverò, non sono mai nemmeno certo che mi riuscirà. Se non raggiungo un livello di soddisfazione non pubblico nulla. E non parto quasi mai dal foglio bianco ma da appunti pieni di parole. Faccio colazione e mi ritaglio uno spazio per dire, per scrivere, per iniziare. –
Iniziare con il farsi parola poetica non può che essere un buon inizio di giornata. Una cerimonia per celebrare la sacralità che è in ognuno di noi.
C’è bisogno di poesia. Ne abbiamo tutti bisogno.