Andrea Meli, scrittore e poeta, ci presenta il suo romanzo “Il nome di Abel” | INTERVISTA

0
1305
Condividi l'articolo, fallo sapere ai tuoi amici ! 

«Il nome di Abel racchiude in sé tante istanze: la relazione tra genitori e figli, l’elaborazione del lutto, il rapporto con il passato, di cosa si è disposti a fare per amore; ma ha anche il carattere del giallo, con indagini, ricerca di prove, ipotesi, ricostruzione di avvenimenti. Il tutto attraversato da una potente energia, che scuote le cose, spalanca le finestre, si manifesta in ombre, visioni, sogni. Un’energia che chiede che venga svelato finalmente il grande segreto che Abel porta con sé» (Andrea Meli)

Andrea Meli, “Il nome di Abel”, AUGH! Edizioni, Viterbo, 2021

Ciao Andrea, benvenuto. Grazie per la tua disponibilità e per aver accettato il nostro invito. Se volessi presentarti ai nostri lettori, cosa racconteresti di te quale Andrea poeta e scrittore?

Intanto grazie a voi per l’invito e l’ospitalità! Mi piacciono le storie in mezzo alle quali striscia silenzioso un elemento perturbante, che a volte può anche prendere la forma del surreale. Scrivere è per me un modo per rovesciare la realtà, ciò che è davanti ai nostri occhi, e mostrare l’invisibile. Che è la modalità con cui mi rapporto sempre al mondo: andare oltre, cercare i fantasmi nelle fotografie, scovare gli intimi desideri degli uomini. Un po’ come guardare al buio con gli occhiali a raggi infrarossi. È eccitante e al tempo stesso fa paura, perché sai che prima o poi viene fuori qualcosa che non vuoi vedere.

… chi è invece Andrea Uomo che vive la sua quotidianità e cosa fa al di fuori dell’arte dello scrivere che puoi raccontarci?

Lavoro come insegnante di sostegno alle scuole medie. Lavoro difficile, impegnativo ma che ti permette di vedere la scuola e i ragazzi da punti di viste diversi. A volte sei l’uomo invisibile che sa tutto di tutti. A volte sei quello che ha la torcia in mano e deve mostrare agli altri l’invisibilità di cui soffrono i ragazzi con disabilità. E ritorniamo alla paura di trovarti davanti agli occhi qualcosa che non vuoi vedere: in questo caso la diversità dell’altro. Ecco, ho imparato sulla mia pelle che bastano pochi minuti perché quella diversità di dissolva. Si tratta di entrarci in relazione e metterti alla prova.

Chi sono e chi sono stati i tuoi maestri d’arte, se vogliamo usare questo termine? Qual è stato il tuo percorso artistico/formativo ed esperienziale nel mondo della scrittura e della poesia?

La mia prima grande scuola è stata un master di scrittura creativa, tenutosi a Siena nel lontano 2005. Devo però moltissimo a Sebastiano Mondadori e alla scuola di scrittura Barnabooth di cui sono stato prima studente e poi tutor negli anni in cui ho vissuto a Lucca. Sebastiano mi ha guidato veramente, mi ha stroncato quando era necessario e spronato quando c’era buon materiale su cui lavorare. Sempre con tanta allegria e convivialità. Nonostante questo ha sempre rispettato i miei tempi. Io sono, oltre che molto pigro, anche un grande indeciso e censore di me stesso. Nel mio percorso ci sono lunghi momenti di riflessione scanditi da tante letture e ricerca di ispirazione. I libri stessi infatti mi hanno un po’ fatto da maestri: Javier Marías, Ágota Christóf, Philip Roth, Philip K. Dick, Giorgio Bassani. E tanti altri. Ho “copiato” da ognuno di loro un po’ di quello che trapela oggi da come scrivo.

Come definiresti il tuo stile poetico e la tua poetica? C’è qualche poeta del passato o del presente al quale ti ispiri?

Il discorso sulla poesia è un po’ più complesso. Su questo versante non ho una vera formazione, a parte quella scolastica e poi alcuni poeti contemporanei scoperti e letti più avanti (Valerio Magrelli e Patrizia Cavalli, per citarne un paio). Ho sempre scritto poesie, fin da ragazzo. Credo più per posa adolescenziale che non altro: erano il modo per sfogare una tensione o sentirmi elevato. Mi rassicuravano. Poi ho cominciato ad apprezzare il lavoro sul suono delle parole, sul concetto di “composizione”. Le poesie a questo punto erano diventate un lavoro artigianale, un intaglio, l’improvvisa condensazione di lunghi e articolati ragionamenti. Non ho mai proposto le mie poesie a un editore. Perché sono piccole cose mie e perché, senza falsa modestia, non mi sento di definirmi poeta. È una parola che va usata con molta cura.

Recentemente hai pubblicato “Il nome di Abel”. Come nasce questo libro, qual è il messaggio che vuoi arrivi al lettore e quali gli stimoli che ti hanno portato a scrivere quest’opera?

Il nome di Abel è il frutto di un lungo lavoro. Ho già detto che sono pigro e molto lento? Ecco, la prima pagina di questo romanzo è stata buttata giù nel 2006. L’ultima nel 2015. In mezzo ci sono stati viaggi a Madrid, altri progetti, altre storie. Stavo quasi per dimenticarmene, quando un giorno mi sono detto che non poteva più stare lì, dovevo farlo andare da qualche parte. In fondo la storia è una specie di manifesto di ciò che dicevo prima: il perturbante che scuote l’apparente immobilità del reale. Nel romanzo infatti un passato che è stato tenuto nascosto comincia a trapelare dalle cose, si traduce in visioni, in sogni che tormentano la protagonista, Giulia. È la vita del padre morto quando lei era piccola che vuole essere raccontata. Il messaggio, se c’è, sta al lettore scoprirlo. Ognuno può vedere e sentire ciò che è più vicino alle sue corde. L’importante è che si venga catturati dalla storia. Che sia una bella storia.

Raccontaci dei tuoi libri, delle tue poesie e delle tue opere nel mondo della scrittura. Quali sono che ami ricordare e di cui vuoi parlare ai nostri lettori in questa chiacchierata?

Nel 2016 è uscito “Anche solo Klop” (Ed. Malacopia, Collana Gatti Volanti) un romanzo scritto a sei mani con Marco Melluso e Diego Schiavo. Marco e Diego sono due autori e registi geniali, con una grande e coloratissima immaginazione, oltre che essere due elementi fondamentali della mia vita. “Anche solo Klop” nasce proprio dall’incontro della nostra voglia di giocare, certe volte a carte scoperte, con la fantasia: cinque ragazzi spiantati e senza futuro devono riportare a casa Klop, un omone grande e grosso che non parla, ma comunica piangendo a dirotto, ridendo a crepapelle e cercando continui e consolatori contatti finisci. Durante il viaggio che da Pisa li porterà ad Amsterdam, i ragazzi incontreranno personaggi surreali, improbabili e a volte grotteschi che però li spingeranno a confrontarsi con loro stessi e con le loro paure.

Sempre con Marco e Diego sono autore de “Il Conte Magico” (Genoma Films 2019), un documentario su Cesare Mattei, l’incredibile Conte bolognese che a metà dell’Ottocento ha inventato l’elettromeopatia, una tecnica per guarire da tutti i mali. Non un documentario classico però: dentro ci sono riferimenti al Mago di Oz, un’estetica steampunk e citazioni nascoste.

Infine un mio racconto – e di questo sono molto orgoglioso – è stato di recente pubblicato sul volume Queerfobia edito da D Editore e curato da Giorgio Ghibaudo e Gianluca Polastri. Una raccolta di racconti, poesie, testi teatrali e cinematografici, immagini e saggi, che analizzano il tema dell’omolesbobitransfobia.

Una domanda difficile Andrea: perché i nostri lettori dovrebbero comprare “Il nome di Abel”? Prova a incuriosirli perché vadano in libreria o nei portali online per acquistarlo.

Il nome di Abel racchiude in sé tante istanze: la relazione tra genitori e figli, l’elaborazione del lutto, il rapporto con il passato, di cosa si è disposti a fare per amore; ma ha anche il carattere del giallo, con indagini, ricerca di prove, ipotesi, ricostruzione di avvenimenti. Il tutto attraversato da una potente energia, che scuote le cose, spalanca le finestre, si manifesta in ombre, visioni, sogni. Un’energia che chiede che venga svelato finalmente il grande segreto che Abel porta con sé.

«Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.» (Giovanni Falcone, “Cose di cosa nostra”, VII ed., Rizzoli libri spa, Milano, 2016, p. 25 | I edizione 1991). Tu a quale categoria di persone appartieni, volendo rimanere nelle parole di Giovanni Falcone? Sei una persona che punta un obiettivo e cerca in tutti i modi di raggiungerlo con determinazione e impegno, oppure pensi che conti molto il fato e la fortuna per avere successo nella vita e nelle cose che si fanno, al di là dei talenti posseduti e dell’impegno e della disciplina che mettiamo in quello che facciamo?

Posso parlare della mia esperienza e soprattutto dai miei errori, perché è da quelli che si impara. E io ho imparato che bisogna conoscere i propri limiti e partire da quelli. Sapere dove si può arrivare. Fare una cernita delle proprie forze e delle proprie armi a disposizione. Dopodiché, individuato l’obiettivo, c’è da lavorare. Puntare tutto sulla fortuna non porta lontano, ma sapere quando sfruttare un’occasione è fondamentale. E le occasioni arrivano, anche più di una volta. Se non conosci te stesso, non le vedrai e se aspetti a braccia conserte che si aprono, perderai l’occasione di conoscere te stesso.

«…anche l’amore era fra le esperienze mistiche e pericolose, perché toglie l’uomo dalle braccia della ragione e lo lascia letteralmente sospeso a mezz’aria sopra un abisso senza fondo.» (Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, Volume primo, p. 28, Einaudi ed., 1996, Torino). Cosa pensi di questa frase di Robert Musil? Cos’è l’amore per te e come secondo te è vissuto oggi l’amore nella nostra società contemporanea, tecnologica e social?

Nella frase citata mi sembra che Robert Musil parli più di innamoramento, che è uno stato di euforia e perdita dei punti di riferimento. Ecco, l’amore viene spesso confuso con l’innamoramento, con l’eccitazione e ha lo stesso effetto di una bella sbronza. Poi passa e rimane il mal di testa e il senso di noia. In questo senso si abusa della parola amore, per colpa temo del Romanticismo, dal quale abbiamo ereditato questo bisogno di grandi emozioni e grandi slanci per sentirci vivi. Il mondo social è un grande amplificatore di storie di innamoramento. Più possibilità ci sono di incontrare persone, più si ha voglia di innamorarsi. Questo ha prodotto un atteggiamento molto superficiale per cui si fa presto a cambiare e a sostituire l’oggetto dell’innamoramento. Tema sul quale sono ferratissimo, visto che sono stato per anni uno che si innamorava alla velocità della luce e soffriva per mesi e mesi se non era corrisposto. Sull’amore invece temo di non sapere tantissimo. È uno stato che sperimento, che sto imparando a conoscere, col quale mi scontro e mi confronto, ma non per questo mi sento in grado di dire cosa è per me. So solo che per amare bisogna lavorare tanto, spogliarsi dei bisogni, delle piccolezze, dei ricatti. Mi viene in mente “La costruzione di un amore” di Fossati, che rende molto bene l’idea che non si tratta solo di farfalle nello stomaco.

«Direi che sono disgustato, o ancor meglio nauseato … C’è in giro un sacco di poesia accademica. Mi arrivano libri o riviste da studenti che hanno pochissima energia … non hanno fuoco o pazzia. La gente affabile non crea molto bene. Questo non si applica soltanto ai giovani. Il poeta, più di tutti, deve forgiarsi tra le fiamme degli stenti. Troppo latte materno non va bene. Se il tipo di poesia è buona, io non ne ho vista. La teoria degli stenti e delle privazioni può essere vecchia, ma è diventata vecchia perché era buona … Il mio contributo è stato quello di rendere la poesia più libera e più semplificata, l’ho resa più umana. L’ho resa più facile da seguire per gli altri. Ho insegnato loro che si può scrivere una poesia allo stesso modo in cui si può scrivere una lettera, che una poesia può perfino intrattenere, e che non ci deve essere per forza qualcosa di sacro in essa.» (Intervista di William Childress, Charles Bukowski, “Poetry Now, vol. 1, n.6, 1974, pp 1, 19, 21.). Tu da poeta cosa ne pensi in proposito? Ha ragione Bukowski a dire queste cose? Cosa è oggi la poesia per te, riprendendo il pensiero di Bukowski?

Mi piace molto l’idea che nella poesia non ci debba per forza essere qualcosa di sacro. Anche questo è un bel retaggio del Rinascimento. La poesia è uno strumento letterario per dire delle cose. Uno strumento raffinatissimo, elaborato, capace di racchiudere pluralità di significati in pochissimo spazio, ma pur sempre uno strumento. È stata usata per parlare di politica, per pregare, per giocare, per prendere in giro, per inveire contro il potere. Il poeta è un professionista che conosce molto bene gli strumenti retorici e sa come usarli a suo vantaggio. Poi certo, esattamente come un musicista, un pittore, un architetto, c’è chi ha il talento, il soffio divino e chi no. C’è chi con due pennellate costruisce un mondo e chi, con tutta la tecnica appresa in ore e ore di studio, produce solo belle cose senza vita. Ci sono poesie che mi fanno tremare, commuovere, che leggo e rileggo senza riuscire mai ad abbracciarle del tutto. Ci sono poesie che ho scritto riuscendo esattamente a centrare il punto e altre che sono rimaste vuote. Esattamente come per tutte le arti, la poesia è il veicolo di un contenuto, con la particolarità che, a livello molto più alto che nelle altre arti, il veicolo e il contenuto si compenetrano. Oggi c’è molto bisogno di poesia, perché c’è bisogno di fermarsi e viaggiare piano dentro noi stessi. Fermarsi a vedere i panorami del nostro animo. Si urla troppo. Si attacca troppo. Si vuole ragione. Si cerca il nemico. La poesia può essere una piccola stanza in cui entrare e fare luce.

«Il ruolo del poeta è pressoché nullo … tristemente nullo … il poeta, per definizione, è un mezzo uomo – un mollaccione, non è una persona reale, e non ha la forza di guidare uomini veri in questioni di sangue e coraggio.» (Intervista ad Arnold Kaye, Charles Bukowski Speaks Out, “Literary Times”, Chicaco, vol 2, n. 4, March 1963, pp. 1-7). Qual è la tua idea, in proposito, rispetto alle parole di Bukowski? Cosa pensi del ruolo del poeta nella società contemporanea, oggi social e tecnologica fino alla esasperazione? Oggi al poeta, secondo te, viene riconosciuto un ruolo sociale e culturale, oppure, come dice Bukowski, fa parte di una “élite” di intellettuali che si autoincensano reciprocamente, una sorta di “club” riservato ed esclusivo, che non incidere realmente nella società e nella cultura contemporanea?

Questo è un altro bel problema: la famosa turris eburnea in cui l’intellettuale si chiude e dialoga solo con i suoi pari, anch’essi eletti, in un linguaggio totalmente distaccato dalla realtà e lontano dal cuore degli uomini. Non dico che non abbiano un ruolo: anche loro servono alla società, perché creano una tensione, un opposto, una polarità. Però io sono affezionato alla figura del poeta che racconta storie tra la gente. Le rime gli servono per ricordare il testo. Il ritmo per non annoiare. È nata così la poesia. Non saprei che ruolo venga riconosciuto oggi al poeta. Sicuramente non viviamo in una società che riconosce agli intellettuali in genere un ruolo di guida. Tale ruolo ormai è riconosciuto ai superstiti del Grande Fratello. L’intellettuale, e in questo caso il poeta, è percepito con disagio, perché nell’immaginario collettivo il poeta è Carducci col piglio severo che parla in decasillabi. Ma ritornando a ciò che dicevo prima, va benissimo che i poeti parlino a pochi. Anche illuminare un solo cuore, va bene.

«… mi sono trovato più volte a riflettere sul concetto di bellezza, e mi sono accorto che potrei benissimo (…) ripetere in proposito quanto rispondeva Agostino alla domanda su cosa fosse il tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.”» (Umberto Eco, “La bellezza”, GEDI gruppo editoriale ed., 2021, pp. 5-6). Per te cos’è la bellezza? Prova a definire la bellezza dal tuo punto di vista di poeta e scrittore. Come si fa a riconoscere la bellezza secondo te?

Il fatto che sul concetto di bellezza si discuta da secoli la dice lunga. È assoluta? Cambia con i tempi? C’è qualcosa di fisso e universale che vale per tutti o bisogna andare a vedere i codici culturali, le grammatiche, le finalità? È ordine? È disordine? Dipende dal gusto, dalla moda o, perché no, dal mercato? Ecco, secondo me la bellezza sta nel farsi domande, nel non trovare risposta e nel meravigliarsi che ci siano cose che ci corrispondono profondamente e cose che ci lasciano indifferenti. Ecco, la bellezza la riconosco quando mi toglie la parole e inizia un dialogo con le mie viscere, con il mio inconscio.

«Ma, parliamo seriamente, a che serve la critica d’arte? Perché non si può lasciare in pace l’artista, a creare, se ne ha voglia, un mondo nuovo; oppure, se non ne ha, ad adombrare il mondo che già conosciamo e del quale, immagino, ciascuno di noi avrebbe uggia se l’Arte, col suo raffinato spirito di scelta sensibile istinto di selezione, non lo purificasse per noi, per dir così, donandogli una passeggera perfezione? Perché l’artista dovrebbe essere infastidito dallo stridulo clamore della critica? Perché coloro che sono incapaci di creare pretendono di stimare il valore dell’opera creativa? Che ne sanno? Se l’opera di un uomo è di facile comprensione, la spiegazione diviene superflua… » (Oscar Wilde, “Il critico come artista”, Feltrinelli ed., 1995, p. 25). Cosa ne pensi delle parole che Oscar Wilde fa dire ad Ernest, uno dei due protagonisti insieme a Gilbert, nel dialogo di questa sua opera? Secondo te, all’Arte, e all’arte della letteratura e della poesia in particolare, serve il critico? E se il critico d’arte, come sostiene Oscar Wilde, non è capace di creare, come fa a capire qualcosa che non rientra nelle sue possibilità, nei suoi talenti, qualcosa che può solamente limitarsi ad osservare come tutti gli esseri umani?

Artista. Pubblico. Critico. Sono una trinità indissolubile. L’uno non esiste senza l’altro. Se non ci fosse il critico, non ci sarebbe la storia dell’arte, la visione generale. Il critico è colui che unisce i pezzi, che li colloca, che li definisce in base a un prima e un poi. Che poi il critico possa fare la fortuna o la sfortuna di un artista, questo ha a che fare con il mercato, che è il quarto elemento che trasforma in profitto ciò che l’artista crea e che il pubblico paga per vedere. In fondo anche l’editor di un romanzo ha una funzione critica rispetto alla materia che gli viene presentata e, se è bravo, tira fuori il meglio dall’opera, la ripulisce, la innalza. Non è un problema che il critico non sappia creare a sua volta. Credo anzi che sia la conditio sine qua non: se il critico sapesse creare, non farebbe il critico. E non è vero, per buona pace del personaggio di Oscar Wilde, che il critico si limita ad osservare come tutti gli esseri umani. Perché, per l’appunto, essendo critico, ha strumenti che altri non hanno. I critici nella storia si sono sbagliati? Sì, tante volte. Ma anche un giudizio sbagliato ha il suo valore. Nella distanza che poi dà la Storia, le cose vengono sempre rimesse nella giusta prospettiva.

Se casualmente ti ritrovassi in ascensore con un grande editore quale Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli, Mondadori, tu e l’Amministratore Delegato di una di questa Case Editrici importantissime, da soli, e avessi un minuto di tempo per sfruttare quell’occasione incredibile e imprevedibile, presentarti e convincerlo a pubblicare il tuo libro, cosa gli diresti di te quale scrittore e autore?

Queste è una di quelle occasioni di cui si parlava prima a proposito di talento e fortuna. Non direi nulla di me. Bisogna sempre mettere al centro l’opera. Qualcosa del tipo: “Forse per lei è un giorno qualunque. Per me è un giorno che non si ripeterà mai più. E non voglio passare il resto della mia vita a pentirmi di non averlo fatto”. Poi porgerei il mio manoscritto all’AD della grande casa editrice. “Questo è il mio romanzo”. A quel punto sarei arrivato al mio piano.

Se per un momento dovessi pensare alle persone che ti hanno dato una mano, che ti hanno aiutato significativamente nella tua vita artistica e umana, soprattutto nei momenti di difficoltà e di insicurezza che hai vissuto, che sono state determinanti per le tue scelte professionali e di vita portandoti a prendere quelle decisioni che ti hanno condotto dove sei oggi, a realizzare i tuoi sogni, a chi penseresti? Chi sono queste persone che ti senti di ringraziare pubblicamente in questa intervista, e perché proprio loro?

Prima di tutto mio nonno Enzo, instancabile scrittore di tragedie, commedie, racconti e poesie, che mi ha sempre fatto vivere in un mondo di storie e di fantasie. I miei genitori, che non mi hanno mai imposto scelte, che mi hanno sempre detto “vai e fai”. Ovviamente Sebastiano Mondadori, che ha sempre speso tempo e parole per me, per farmi conoscere, per darmi visibilità e che mi ha aiutato a trovare la mia voce.

Marco e Diego, che mi hanno scelto, adottato, fatto diventare parte integrante della loro famiglia, e con i quali sperimento ogni giorno l’impegno che ci vuole nel lavorare insieme, ma anche la bellezza che ne deriva.

E infine i miei amici intimi e fraterni, con i quali, fin dal liceo, ho immaginato un futuro di sogni realizzati. In particolare Lisa, che è bussola e casa della mia anima; Manfredi, che mi corrisponde e mi riflette al di là del pensiero; Vito, con cui ho ragionato di tutto e ho sbucciato più e più strati di profondità.

Se dovessi consigliare ai nostri lettori tre film da vedere quali consiglieresti e perché?

Faccio una lista secca:

Memento di Christopher Nolan, perché scardina il concetto di tempo e di memoria e ogni tanto scardinare è un’attività sana. Chi ha incastrato Roger Rabbit di Robert Zemeckis, perché è un trionfo di tecnologia e ingegno al servizio della fantasia. Ed è molto, molto divertente. Alien di Ridley Scott, perché tocca con maestria tutte le corde dell’ansia e della tensione: un capolavoro artigianale.

E tre libri da leggere assolutamente nei prossimi mesi? Quali e perché proprio quelli?

Anche qui, una lista secca:

Limonov di Emmanuel Carrère, perché è una storia vera, raccontata con la forza di un romanzo, l’obiettività di un reportage, l’intimità di un diario segreto, la profondità di una riflessione filosofica sul senso della grandezza e dell’eroismo. E poi perché Carrère va letto sempre e comunque. Alta Definizione di Adam Wilson, perché è struggente, ironico, spiazzante e, a suo modo, delirante: esattamente quello che cerco in un romanzo. The Weird and the Eerie di Mark Fisher, perché spiega da dove viene il nostro senso di smarrimento e di inquietudine, come si traduce nell’arte letteraria e nel cinema e perché abbiamo sempre un po’ bisogno di perderci da qualche parte.

I tuoi prossimi progetti? Cosa ti aspetta nel tuo futuro professionale e artistico che puoi raccontarci?

Vorrei fare girare un po’ “Il nome di Abel”, vedere dove arriva e dove mi porta. Ho già un altro romanzo pronto e uno in fase di scrittura. Cerco di capire qual è il momento giusto per ognuno di loro.

Con Marco e Diego intanto sto lavorando a una serie di documentari sulle figure femminili che hanno fatto la Storia. In cantiere al momento c’è il documentario su Lucrezia Borgia, dal titolo “Lu’ Duchessa d’Este”: l’incredibile storia di una ragazza calunniata per secoli, ma che era, oltre che molto intelligente, anche una grande imprenditrice e una donna di una travolgente dolcezza e simpatia. Sempre con Marco e Diego stiamo preparando il seguito del nostro romanzo “Anche solo Klop”.

Dove potranno seguirti i nostri lettori?

Sui profili Facebook e Instagram dei lavori già fatti (Il Conte Magico e Anche solo Klop) e di quelli in lavorazione (Lu’ Duchessa d’Este) insieme agli autori e registi Marco Melluso e Diego Schiavo

https://www.facebook.com/anchesoloKlop

https://www.instagram.com/anche_solo_klop/

https://www.facebook.com/ilcontemagico

https://www.instagram.com/ilcontemagico/

https://www.facebook.com/luduchessadeste

https://www.instagram.com/luduchessadeste/

E sulle mie pagine Facebook e Instagram personali, dove posterò tutti gli eventi legati al romanzo.

https://www.facebook.com/andrea.meli.77

https://www.instagram.com/andrea_meli_80/

Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa intervista?

Vorrei spendere due parole per ringraziare il mio editor, Maurizio Vicedomini, che ha svolto un lavoro delicato e decisivo nello scovare pagine sbilenche, confuse e a volte troppo lontane dalla storia. E ovviamente la mia casa editrice, la AUGH! Editore, che ha creduto in questa storia e l’ha confezionata nel modo migliore che potessi sperare.

Andrea Meli

https://www.facebook.com/andrea.meli.77

Andrea Meli, scrittore e poeta

Il libro:

Andrea Meli, “Il nome di Abel”, AUGH! Edizioni, Viterbo, 2021

https://www.aughedizioni.it/prodotto/il-nome-di-abel/

Andrea Meli, “Il nome di Abel”, AUGH! Edizioni, Viterbo, 2021

Andrea Giostra

https://www.facebook.com/andreagiostrafilm/

https://andreagiostrafilm.blogspot.it

https://www.youtube.com/channel/UCJvCBdZmn_o9bWQA1IuD0Pg

Andrea Giostra al mercato di Ballarò a Palermo