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Questo breve articolo scritto sotto forma di “storytelling” è tratto dal mio libro “I 19 racconti di Amicaldi”: credo che a chi non è più esattamente un ragazzino possa far piacere ricordare l’epoca in cui lo scrittore era una figura un po’, se vogliamo, romantica; e come si sia evoluta tale figura, di pari passo con la tecnologia, nell’arco di pochi anni. Certi mestieri (e le relative attività), lo sappiamo tutti, sono quasi completamente scomparsi, mentre ne sono nati di nuovi; alcune atmosfere erano inscindibili da quei luoghi, di cui Marcel Proust descriverebbe persino gli odori.

La ragazza uscì dalla copisteria presso cui lavorava, erano suppergiù le otto di sera e c’era una nebbia da tagliare col coltello: c’era spesso la nebbia durante l’inverno, in quegli anni a Torino; era il 1989 e il mondo stava cambiando senza che noi, poco più che ventenni, ce ne rendessimo conto più di tanto.

Mentre volgeva al termine la guerra fredda, si disgregava il Patto di Varsavia e crollava il Muro di Berlino, in una viuzza del centro storico della città magica stava per avvenire uno strano scippo.

La ragazza di cui vi sto parlando è una mia cara amica di vecchia data; quel giorno un suo amico, d’accordo con me, decise di farle uno scherzo di pessimo gusto. Ci approcciammo dietro un androne e appena lei uscì dalla porta lui partì di corsa, le strappò la borsetta e corse via: io mi avvicinai e vedendo che non era troppo agitata ma nemmeno tranquilla le dissi subito che si trattava di uno scherzo e lo richiamai all’ordine. La serata finì come sempre allegramente nella solita birreria in cui trascorrevamo quasi tutte le sere: l’unica conseguenza di quello scherzo sciagurato fu che da quel momento le fotocopie e i dattiloscritti dovemmo iniziare a pagarceli.

Mi è tornato in mente questo episodio perché dopo una delle lezioni di self-editing condotte da colei a cui curo la consulenza (e che ha scritto la prefazione a questo libro – N.d.R.) mi era capitato di tornare a pensare a come si scriveva e pubblicava fino a solo pochi decenni fa; probabilmente i più giovani, nati nell’era digitale e di internet, non avranno mai avuto a che fare con le macchine per scrivere e i ciclostili.

Io a quei tempi scrivevo con la penna e con una macchina da scrivere1 che a volte mi veniva prestata da mia sorella: una portatile meccanica Olivetti Lettera 32 (la macchina, non mia sorella!2 – N.d.A.).

In passato, come molti di voi sapranno, si scriveva con quei simpatici e rumorosi aggeggi che sembravano progettati apposta per rompere le unghie alle signore; in molte scuole la stenografia e la dattilografia erano materia d’insegnamento. Ricordo bene gli esercizi che faceva mia sorella con un foglio posizionato sopra le mani per scrivere senza guardare la tastiera; provai anche io un paio di volte, ma mi stufavo subito, non faceva per me. Però col tempo ho imparato a usare quasi tutte le dita con velocità non certo da lepre ma almeno non da lumaca.

A quel tempo esistevano già computer decenti e programmi per videoscrittura, ma era ancora roba per pochi, costosa e difficile da utilizzare; comunque ogni copisteria che si rispettasse aveva un computer e una o più macchine per videoscrittura, che poi altro non erano che una sorta di computer dedicato allo specifico scopo, con la possibilità di memorizzare e stampare il testo che si vedeva sul monitor. Era l’epoca eroica degli schermi a fosfori verdi e delle sferraglianti stampanti ad aghi che creavano nella penombra un’atmosfera fantascientifica e quasi mistica.

Ciò che non poteva mai mancare in quei negozi assiduamente frequentati dai laureandi dell’epoca, erano le macchine da scrivere elettromeccaniche: quelle che al posto del carrello e dei martelletti (il loro intrecciarsi era l’incubo di ogni segretaria) avevano una palla con le lettere che girava e si spostava sul foglio.

Non potei imparare molto dalla mia amica nonostante andassi a trovarla spesso al lavoro: lei aveva poco tempo da dedicarmi e io ero più affascinato dai suoi occhi (e dalle sue tette) che non dalle attrezzature.

Ciononostante oggi, con trent’anni in più sulle spalle e più ricordi romantici che progetti per il futuro, ricordo piacevolmente anche la scenografia intorno agli eventi, ciò che circondava il mio obiettivo (il quale, per chi fosse curioso, non venne mai raggiunto: dalla friendzone3 non si sfugge!).

Eusebia (chiamerò così la nostra amica per rispettarne la privacy) mi aveva spiegato che quelle scatolette con una fessura (oggi so che si chiamavano floppy-disk) servivano per memorizzare i testi scritti, così, se fosse servito, in un secondo momento sarebbe bastato inserire il disco giusto e premere un bottone: la macchina avrebbe scritto di nuovo tutto da sola. Detto per inciso, non ho mai capito perché li chiamassero dischi: erano quadrati!

Quando a quel tempo si aveva bisogno di scrivere qualcosa di presentabile lo si scriveva a mano o con la propria macchina da scrivere e poi si andava in copisteria, luogo dove, come avrete già capito, non ci si limitava a farsi solo fare fotocopie.

In realtà non ci si limitava a fare qualunque cosa nel retrobottega, quando era assente il principale, ma questa, come direbbe un mio professore delle medie, è un’altra storia!

In mezzo a faldoni di studi legali, studenti che fotocopiavano interi libri per risparmiare, aspiranti scrittori che volevano una bella copia di dattiloscritti da inviare agli editori e simili amenità, nasceva una storia d’amore: no, non quella con Eusebia, che sarebbe rimasta solo una mia fantasia per il resto della vita, ma quella con l’arte dello scrivere. Fu così che divenni un grafomane.

Scrivevo qualunque cosa ovunque: poesie, racconti, diari, lettere, comunicati sindacali, fanzine e chi più ne ha più ne metta. Ma già allora, nonostante la mia giovane età, ero senza il becco di un quattrino e non potevo certo pagarmi la produzione di un “book” da presentare a qualche casa editrice.

Avevo un piccolo sogno nel cassetto però: avevo adocchiato sul Postal Market una piccola macchina per scrivere portatile, nientepopodimenochè, udite udite, elettronica! aveva il sistema detto a margherita e persino un display a due righe con la possibilità di memorizzare e correggere fino a otto righe di testo! Era venduta ad un prezzo accessibile, ma non per me s’intende.

Qualche anno dopo, era ormai il 1995, la mia fidanzata dell’epoca comprò un computer in offerta di lancio corredato da Windows 95, ma privo di lettore di compact disc: per caricare il sistema operativo occorrevano la bellezza di 18 floppy. Non disponeva ancora di un collegamento a internet, che di lì a poco avrebbe rivoluzionato il mondo, ma ebbi occasione di vedere i primi programmi da ufficio e per videoscrittura di tipo moderno.

MS Works e MS Office con Word e Excel, che già in versioni più semplici esistevano ai tempi in cui i computer “giravano” in DOS e PC/M4, si affacciavano ai miei occhi per la prima volta.

Ero affascinato da tutto ciò che si poteva fare con quei sistemi, soprattutto il fatto di poter correggere e formattare il testo senza doversi sporcare le dita con improbabili bianchetti e nastri inchiostrati, cambiare la margherita per usare font diversi, e riscrivere tutto dal principio quando gli errori erano troppi.

Poi, quando cominciai a sedermi alla tastiera di un computer, avvenne il colpo di scena: non mi veniva più in mente nulla che valesse la pena di scrivere!
Precipitai nello sconforto più profondo, il limbo della letteratura: avevo il famigerato
blocco dello scrittore!

Mi risollevai un po’ accorgendomi che se prendevo in mano una penna o usavo la vecchia macchina da scrivere l’ispirazione tornava, per svanire misteriosamente quando ero al p.c.

Così per molto tempo non feci altro che copiare, come si suol dire, in bella, tutti i miei lavori degli anni precedenti. Ma prima o poi ci si abitua a tutto, al punto che oggi non potrei fare a meno di scrivere al computer: beh, in fondo in quest’epoca è comunque obbligatorio.

I manoscritti (che tali non sono) si inviano alle case editrici via mail o ci si autopubblica su piattaforme come Amazon; un plico di dattiloscritti non viene più preso in considerazione da nessuno, salvo forse da qualche editor disposto a fare anche da scriba.

Ed Eusebia? con l’avvento dei desktop e di internet in ogni casa, il settore delle copisterie andò in crisi e lei si cercò un altro lavoro. Si sposò, divorziò, fece una vita normale come tante altre persone, le nostre strade si separarono e ci perdemmo quasi del tutto di vista.

Quel finto scippo che vi ho raccontato all’inizio mi permise di abbracciarla a lungo e mi restò stampato nel cuore per sempre: un abbraccio fra macchine da scrivere e ciclostili, un pezzo di storia umana che non dovrà mai andare persa.

1 Per la cronaca “macchina da scrivere” e “macchina per scrivere” sono locuzioni considerate entrambe giuste, anche se io ritengo impropria la prima, come chiarisce l’Accademia della Crusca https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/macchina-da-scrivere-o-macchina-per-scrivere/817

2 Notare come la posizione del “due punti” può rendere assurda una frase!

3 La famigerata “regola dell’amico”, secondo la quale se diventi amico/a non hai più speranze di “andare oltre”.

4 DOS e PC/M, per chi non lo sapesse, sono vecchi sistemi operativi a riga di comando e senza interfaccia grafica, usati nei computer precedenti gli anni ’90.

 Alessandro Zecchinato

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