Amiche ed Amici carissimi, è innegabile che subire un rifiuto, sia in ambito professionale che amicale e sentimentale, susciti un’emozione spiacevole, quando non dolorosa.
Tuttavia, se è inconfutabile che le decisioni ed i comportamenti altrui fuoriescono dal nostro controllo, per dono naturale siamo ampiamente ricompensati dal potere di scelta in merito all’intensità percettiva del disagio inflittoci. Deteniamo pertanto il potere assoluto di governare il nostro stato d’animo: vale a dire che, a fronte di ogni evento, spetta solamente a noi scegliere “come sentirci” e, dunque, drammatizzare o armonizzare.
Un aiuto è riscontrabile nell’oggettivizzare gli accadimenti, riconoscendo – e rispettando – il libero arbitrio altrui, così che la delusione sia resa lenita e dunque più accettabile.
Al “principio di oggettività” , si associa quello di “reciprocità”. L’assunto dei due basilari criteri, conferma l’inesorabilità del rifiuto nell’esistenza di ognuno di noi: così come siamo rifiutati, a nostra volta rifiutiamo.
Manifestiamo l’altrui rifiuto a fronte di eventuali declini a nostre candidature, ma anche noi rifiutiamo alcune proposte professionali; nel privilegiare alcune amicizie ed amori a scapito di altri, suscitando involontariamente il loro sgomento, così come subiamo lo scarto da parte di persone cui teniamo, soprattutto da parte del partner o ambìto tale.
Quest’ultimo rifiuto è particolarmente doloroso perché induce a porre in discussione il nostro “essere” e non il nostro “saper fare”, due aree ben distinte che, in ambito formativo impongono il preciso distinguo.
Quando riceviamo un rifiuto sentimentale, l’autostima s’infrange tanto quanto il cuore, ci percepiamo sbagliati in ogni senso e, per questo, non meritevoli d’amore. Può essere davvero devastante e mantenere l’autocontrollo è fondamentale.
Lo scoramento pervade entrambi i sessi, tuttavia, differisce notevolmente nella sua esternazione oltreché nella capacità di accettazione, aspetto questo, correlabile ed imputabile ad un atavico modello culturale.
L’uomo è dai tempi più remoti il corteggiatore per antonomasia ed è nella logica la conferma che, chi si propone, corre il rischio di essere rifiutato. Pertanto, l’uomo, pur soffrendo, è temprato ad affrontare l’emozione del rifiuto. Per contro, la donna, solo recentemente – direi negli ultimi cinquant’anni – ha incrementato il suo ruolo di corteggiata, agendo a sua volta il corteggiamento e dunque non è emotivamente altrettanto “allenata” nel subire il declino da parte dell’uomo.
Altresì, la donna, se rifiutata/lasciata, va alla ricerca di conforto, chiama a raccolta le amiche per sfogare il suo dolore e, soprattutto la rabbia, fomentando così il deleterio “rifiuto del rifiuto”… l’esatto contrario dell’accettazione e, per contro, l’esaltazione del dolore. L’uomo è più riservato, violenti e folli ovviamente esclusi, tende più velocemente al ripristino della sua serenità.
Oggettivizzare il rifiuto consente di non sprofondare nel disfattismo e salvaguarda l’autostima, ci invita a riflettere in merito all’incontrovertibile fatto che il nostro valore resta intatto perché prescinde dalle decisioni dell’altro.
Non si è divenuti privi di valore perché la persona che ci era accanto ha scelto un percorso di vita che ci esclude: per doloroso che sia, accettare che è la storia ad essersi esaurita – fosse anche per univoca volontà dell’altro -, solo considerando che non è un affronto impostoci per cattiveria e non è una colpa non amare più, ci evita di rimuginare o, peggio, meditare inutile vendetta – introiettando energie negative, ad alto potere attrattivo -, innalzando e prolungando la sofferenza, in virtù che, per legge di risonanza, più ci concentriamo su quello che non vogliamo e più lo attraiamo.
Un abbraccio
Daniela Cavallini