Amiche ed Amici carissimi, recentemente è stata nostra ospite la Scrittrice Patrizia Bianco per presentarci il Suo ultimo successo letterario “Lo chiamavano l’Incantato” (Ed. Kimerik) https://mobmagazine.it/blog/2023/02/patrizia-bianco-lo-chiamavano-lincantato/
In quell’occasione Vi ho espresso l’entusiasmo per l’immediato feeling che si è instaurato tra noi; feeling ininterrotto, suggellato dalle confidenze più intime, come accade nei rapporti che amo definire “attratti energeticamente”. Patrizia mi ha raccontato molto della Sua vita, soprattutto dell’essere stata una Donna desiderosa di divenire mamma, ma, pur senza aver lasciato nulla d’intentato di quanto la Scienza offre, ha accettato con rassegnazione e consapevolezza che il destino aveva delineato per lei un percorso differente, e pensò così di rinunciare al suo sogno. Tuttavia, il fato, a fronte della Sua resa, tramutò l’avversità rivelandosi inimmaginabilmente appagante, regalando a Lei ed a Suo marito la genitorialità che prescinde solo ed esclusivamente la biologia, privilegiando il cuore. Fu così che Patrizia e Suo marito divennero genitori, “genitori di cuore”,adottando Anastasia.
Oggi, Patrizia è nuovamente con noi per parteciparci della Sua esperienza, dal momento in cui ha deciso di volere un figlio, senza disconoscere i momenti difficili trascorsi nell’annessa alternanza di sensazioni tra speranza e delusione, i disagi procurati dagli esami clinici e dalle successive cure invasive cui si è sottoposta – per molte donne realizzatrici di felicità, ma su di lei inefficaci -, il condizionamento di cui ha risentito il Suo matrimonio, com’è sorta l’idea dell’adozione ed il relativo estenuante percorso, le difficoltà subitanee post adozione abilmente superate ed infine la gioia immensa di essere e percepirsi mamma a tutti gli effetti. Tuttavia, Patrizia – Donna fortemente onesta e coraggiosa – ha ritenuto, in accordo con il marito, di ritornare in Ucraina con Anastasia, ormai giunta alla vigilia della maggiore età, per ripercorrere la sua infanzia e condividere la sua storia ivi compreso l’esperienza forte dell’orfanotrofio.
Con questa intervista, Patrizia, ha desiderato rafforzare il suo intento d’infondere un messaggio di coraggio alle Donne che oggi affrontano l’analoga condizione, così come precedentemente divulgato nel Suo libro “Controcanto, verso il vento” (Ed. Kimerik). Tale titolo, mi spiego’ Patrizia, lo ha scelto perché richiama quello che in teoria musicale – il controcanto – è proprio un rincorrersi della stessa melodia eseguita con diversi strumenti come può essere la sinfonia d’amore di una mamma e della sua bimba.
Daniela Cavallini:
Ciao Patrizia, ben tornata, oggi potremmo creare un nuovo slogan “è una gioia raccontare la gioia”… e tu oggi sei con noi proprio per trasmettere spontaneamente, in qualità di Donna, spogliata dei panni della Scrittrice di successo, la tua felicità ed abbattere dubbi e pregiudizi correlati alla maternità adottiva.
Patrizia Bianco:
Ciao Daniela, ben trovata, “è una gioia raccontare la gioia” è uno slogan che mi piace, e l’ho già fatto mio. Detto questo, se omettessi di rivelare il lungo trascorso, mio e di mio marito, vale a dire dalla decisione di volere un figlio sino all’adozione, mi parrebbe di mentire o, quantomeno, di sottrarmi alla completa verità.
Daniela Cavallini:
Ti riservo tutto il tempo che desideri!
Patrizia Bianco:
Come ogni coppia che desidera un figlio, abbiamo agito nell’unica, meravigliosa, possibilità che offre la natura, ma ben presto scoprimmo sulla nostra pelle, quanto la natura stessa sia selettiva nel concedere l’agognato risultato. Il tempo passava ed io non rimanevo incinta.
A quel punto compresi che qualcosa ostacolava il concepimento del nostro bimbo e mi rivolsi, anzi ci rivolgemmo, a vari Luminari della ginecologia, collezionando cure, speranze e… delusioni.
I rapporti sessuali erano divenuti condizionati dal concepimento, oramai anteposto al desiderio.
Fu così che accumulando delusioni con ricorrenza mensile, decidemmo di rivolgerci alla scienza, accettando di concepire il nostro bambino con le note pratiche procreative e gli annessi limiti ben poco romantici… Nulla… non accumulammo altro che sgomento e frustrazione.
Mi sentivo una donna incompleta e non volevo desistere, ma ad un certo punto, mio marito, esausto dalla stremante condizione emotiva, mi disse di non voler più perseguire in questo progetto, di non parlargliene più e di vivere la nostra vita accettando il rifiuto del destino alla nostra genitorialità.
Per me fu un momento molto doloroso, ma mi ripromisi di non farne più parola.
Fu così che trascorse un po’ di tempo ed inaspettatamente una sera mio marito mi disse “tu, Patrizia, sei una mamma nata, che ne diresti di adottare un figlio o una figlia?”. Che dire… rimasi senza parole ed iniziammo il percorso per l’adozione. Un periodo lungo ben cinque anni in cui abbiamo affrontato ostacoli non lievi, tuttavia rassicurati dalle autorità coinvolte che eravamo ritenuti idonei all’adozione. Per anticipare i tempi, ci proposero l’adozione di un bimbo appartenente al gruppo de “I bambini del sorriso”… bambini affetti da gravi problemi di salute o malformazioni. Ci pensai, ma pur consapevole che anche con l’adozione “tradizionale” avremmo potuto avere l’identica sorte, che per inciso avremmo accettato, ammisi onestamente di non sentirmi di scegliere scientemente quella possibilità.
Daniela Cavallini:
Com’è stato il primo incontro con Anastasia?
Patrizia Bianco:
Beh, si tratta di un momento indimenticabile. Soffocati in un’attesa senza tempo, la scorgemmo improvvisamente comparire nella sala d’attesa con un album e fermarsi vicino all’acquario. Eravamo stati avvisati di non avvicinarci, la bimba poteva spaventarsi eppure lei ci guardava incuriosita pur facendo di tutto per nasconderlo, poi qualche sorrisetto partì dalle labbra di fragola che noi timidamente ricambiammo increduli di tanta grazia. Dopo qualche minuto, Anja la referente ci introdusse in ufficio, la scheda di Anastasia era lì in evidenza. Ci venne illustrata sommariamente la sua storia che parlava di una piccina entrata in Istituto all’età di cinque anni, dopo aver abitato per un periodo insieme alla madre a casa del nonno a Mariupol. In seguito questi, per problemi economici, era stato costretto a vendere l’appartamento così la giovane donna e la bambina avevano dovuto spostarsi in molte abitazioni sempre in condizioni precarie fino all’ingresso della piccola in Istituto.
La Direttrice prese la parola per un tempo indefinito. Il suo sguardo non perdeva mai di vista i registri spalancati innanzi a lei e compilati in una minuta scrittura cirillica che accostavo all’ostrogoto. I suoni squillanti che uscivano dalla sua voce si ingarbugliavano nelle mie orecchie: la lingua slava era incomprensibile, “ci riduceva alla condizione di sordomuti” come diceva mia sorella. Eravamo coscienti che, come uno squarcio di luce su un enorme mistero, stava per aprirsi, per la prima volta innanzi a noi, uno scrigno prezioso. Anja avrebbe tradotto di lì a poco, il momento era catartico, pendevamo dalle sue labbra. “Ora ci presenterà la bimba, descriverà il suo carattere, le sue inclinazioni, i suoi problemi, il suo profitto scolastico” Pensai con emozione. Purtroppo le informazioni, e ancor più le opinioni appena espresse sulla sua permanenza nell’”internat” così importanti per noi, furono spazzate via in un momento: con un laconico e striminzito “tutto bene” e un sorriso di circostanza ridusse ad un francobollo quell’affresco che io e mio marito avremmo custodito nell’angolo più sacro del nostro cuore. Altro che angelo custode, altro che assistente a trecentosessanta gradi!
Una tale inaspettata banalizzazione mi spiazzò, stavo per crollare a terra desolata dalla grande delusione, ma fu un attimo, la porta si aprì timida ed apparve proprio lei, quel visetto delizioso dalle labbra vermiglie.
La Direttrice ci presentò, lei sorrise e si proiettò subito verso di noi con un grande slancio. Mi accoccolai sulle ginocchia per guardarla in viso, le demmo i nostri doni e furono abbracci, baci, sorrisi. Una felicità immota ci pervase, al di là dello spazio e del tempo. Le misteriose linee del destino giravano attorno a noi sfiorandoci amorevolmente.
Il ricordo di quel momento è indissolubilmente legato anche alla sua espressione incredula quando mio marito, nel consegnarle un leoncino di peluche, la coinvolse in un gioco: in un primo momento teneva fra le braccia il pupazzo cui accarezzava la criniera e poi improvvisamente fingeva gli sfuggisse di mano per spiccare un salto verso di lei. La sua reazione fu di guardinga attenzione, e quasi davvero credette che quel cucciolo potesse animarsi e sfuggire al controllo così facilmente. Ecco, i suoi occhioni spalancati dicevano tutto questo prima di sciogliersi in un sorriso.
Cara Daniela, per te e per i tuoi lettori mi sento di aprire lo scrigno segreto dei ricordi e di presentarti quanto scrisse Anastasia di quei momenti quando, all’età di 11 anni fu in grado di esprimersi in italiano:
“Un giorno come tanti mi alzai e la sorvegliante mi disse: “Oggi tu non vai a scuola.” Io pensai: “Forse devo andare a fare una visita medica!?” Invece no, mi chiamò la psicologa. Agitatissima scesi da lei. ‘Cosa mi dirà di tanto importante’ Pensai. Mentre andavo nella sua stanza, vidi due signori che avevano proprio l’aspetto di genitori: la mamma aveva le lacrime agli occhi, mi sorrideva e anche il papà era emozionato. Entrai nella sala, mi fece vedere un cartone animato e poi mi invitò a fare un disegno vicino all’acquario. Non riuscivo a concentrarmi sul disegno e sui pesciolini colorati che mi piacevano tanto, invece fissai per tutto il tempo quei due genitori. Lanciai loro dei sorrisi e mi ritornarono carichi di tenerezza. “Questi signori vorrebbero una figlia” pensai. Mi venne a chiamare la dottoressa ed entrai nel suo studio. Guardò il pesciolino a fumetti che avevo disegnato all’ultimo momento e poi si raccomandò: “I signori sono in attesa, non farmi fare brutta figura” Passando salutai con un grande sorriso e pensai: “Speriamo sia giunto il mio momento”.
Daniela Cavallini:
Una tenerezza struggente. Ricordo che mi raccontasti di un periodo di “affiancamento” ad Anastasia, tra le mura dell’internat, della durata di sole due ore giornaliere, con l’impossibilità di uscire con lei…
Patrizia Bianco:
Oh, certo che sì, tanto era grande la gioia di andare a trovarla ed altrettanto la tristezza di al termine della visita. Non potevamo portarla fuori neppure per una breve passeggiata; tu pensa che Anastasia abbisognava di un paio di scarpe nuove e, rispettando l’impedimento, mio marito si adeguò, prendendo la forma dei piedini della bimba e portandola nell’apposito negozio che avrebbe preparato l’esatta misura delle sue scarpette.
Daniela Cavallini:
Limitazioni che mi permetto di considerare assurde, dato che la direzione dell’internat disponeva di tutte le vostre più che rassicuranti informazioni. Quanto tempo durò questo ulteriore supplizio che, a questo punto coinvolgeva tutti e tre?
Patrizia Bianco:
Ci volle circa un mese per ottenere la sentenza da parte del tribunale. Effettivamente il conto alla rovescia è stato frustrante, non vedevamo l’ora di tornare in Italia con la nostra bimba ma ancor più ci pesava attenerci al rigido protocollo a cui facevi cenno. Devo dire che alle cinque del pomeriggio preoccupazioni e ansie svanivano d’incanto. Aspettavamo Anastasia nella grande sala cercando di indovinare i suoi passi leggeri e quando entrava con la scatola dei giochi o con un micetto fra le braccia ci sentivamo inondati da un raggio di sole. Pomeriggio dopo pomeriggio ci convincemmo che Anastasia era bambina sveglia e sensibile che amava il contatto fisico, adorava giocare tutti insieme sul tappeto. Le proponevo di dipingere o di fare vestitini per la Barbie ma quello che più la interessava era la macchina fotografica. L’idea di inviare ai nonni tante foto naufragò miseramente, appena la tiravamo fuori se ne impossessava, era lei che voleva ritrarci. I video erano la sua passione, li guardava e riguardava ascoltando le nostre voci, quasi avesse bisogno di una prova tangibile che era arrivato anche per lei un momento che aveva tanto sognato. Purtroppo il tempo volava via e vederla scomparire su per la scala che conduceva al piano superiore mi faceva soffrire, si materializzavano le mie colonne d’Ercole, il limite invalicabile oltre il quale potevo aggirarmi solo con l’immaginazione. Quel senso di troncamento, di amputazione con cui dovevamo fare i conti ogni sera ci faceva tornare a casa svuotati. È stata la nostra grande determinazione ad averci sostenuto: “In fondo domani la rivedremo” ci dicevamo prima di spegnere la luce.
Lo spettacolino di addio organizzato dalle istitutrici fu un momento catartico. Tutti i bambini avevano un ruolo, non solo i piccoli che di lì a poco avrebbero lasciato l’Istituto, l’intento era quello di aiutare anche gli altri a elaborare il distacco alimentando in loro la speranza che presto ci sarebbe stata un’occasione anche per loro.
A fianco ai loro occhi stupendi, a voci cristalline piene di grazia e espressività aleggiavano enormi interrogativi: è eticamente accettabile permettere a dei piccoli di subire la deprivazione degli affetti per lunghi periodi e di contro avere la disponibilità di migliaia di coppie ad accoglierli incondizionatamente? È lecita un’apertura alle adozioni internazionali subordinata a contropartite economiche chiamate, con un’espressione politically correct, “Progetti di cooperazione”? Concedere una chance di vita a un essere umano non ha prezzo e d’altro canto emerge un dovere morale di aiutare il Paese economicamente svantaggiato con azioni di sostegno alla famiglia e all’infanzia. La banalizzazione in campi tanto complessi e delicati è a portata di mano.
Arrivò il momento di lasciare Mariupol, finalmente eravamo fuori potevamo tenerci per mano, ci invase un senso di euforia e insieme di incredulità. Ci guardammo intorno un’ultima volta, quel luogo racchiudeva la sua, la nostra storia. Da quel momento il nostro numero del cuore sarebbe stato il tre. Niente avrebbe potuto più separarci.
Daniela Cavallini:
Poi venne il giorno della partenza per l’Italia, verso la vostra nuova vita di famiglia Adottiva, anche se credo d’immaginare che l’accezione “adottiva” era già divenuta obsoleta per i vostri cuori; tuttavia com’è stato l’inizio della vostra nuova vita? Voi partiti coppia e tornati a casa famiglia, l’inserimento di Anastasia in nuovo Paese, la difficoltà della lingua, l’approccio con i parenti, gli amici, la scuola, gli amichetti?
Patrizia Bianco:
Assolutamente sì, Daniela, immagini perfettamente, Anastasia era la nostra adorata bambina a tutti gli effetti ma come puoi immaginare la consapevolezza piena della maternità ha bisogno di tempo per maturare. A tal proposito ti voglio raccontare la mia prima notte con lei.
Eravamo in stazione e, quando vedemmo il nostro treno arrivare, mi accorsi che la mia piccola era in apprensione: me ne accorgevo dalla sua manina che solo per brevi momenti lasciava la mia. A fiotti entrammo nel vagone, adulti frettolosi, bambini vocianti, ognuno con le proprie valigie alla ricerca dell’agognato posto, ma quando fummo nel nostro scompartimento tutti i rumori si attutirono, si fecero ricordo. Stavamo per trascorrere i primi momenti di intimità tutti e tre, finalmente insieme attorno a un caminetto immaginario per godere di un’intimità semplice e appagante ma che sentivamo ancora molto precaria. Tirammo giù le cuccette e chiedemmo ad Anastasia quale preferisse. Subito ne scelse una, poi un attimo dopo cambiò idea e volle provarne una diversa, e un’altra ancora in una girandola di salti. “Sono comode” Disse esprimendosi ovviamente a gesti. Poi diventò taciturna, si sdraiò su una di quelle superiori e si mise a fissare le luci aranciate delle rade stazioni e dei villaggi assonnati che incontravamo. Nella prima notte che passavamo insieme aveva deciso di fare la forte, di non cedere al sonno, stava lasciando la sua terra, la sua cultura, la sua lingua, il suo cibo, le sue abitudini. Tutto ciò che fino ad allora le era conosciuto andava scomparendo alle sue spalle inghiottito nel buio. Si era affidata completamente a quegli sconosciuti, ad un abbraccio odoroso, a una promessa di sguardi. Il sogno di avere una famiglia era tutto in quel treno lanciato oltre le ciminiere appena meno nere della pianura sconfinata. E se tutto fosse svanito nella notte? Fu un viaggio nel quale molte angosce si affacciarono dai suoi occhi di bambina come fiori appassiti da un davanzale. Era molto tardi quando riuscì a prendere sonno fra le mie braccia. Sentii una quieta lacrima trovare la sua strada lungo la guancia: era la prima volta che nella mia vita il giorno si concludeva stringendo mia figlia. In quel momento non pensai che avrei provato le stesse sensazioni se il destino avesse voluto che io stessa l’avessi partorita. Solo ora nel rievocare quei momenti ci rifletto: di lì è iniziato il percorso interiore che mi avrebbe portata ad accettare la mia nuova condizione di mamma.
Arrivammo in Italia in un pallido mattino di novembre dopo due mesi e mezzo di assenza, io e mio marito non eravamo più gli stessi individui, ora eravamo una famiglia, nuovi problemi, nuove responsabilità ci attendevano.
L’incontro con i nonni, con la zia fu esaltante, le piacque la cameretta. A proposito della scuola decidemmo di non forzare il suo inserimento e farci guidare dai suoi tempi e così, a soli due giorni dal nostro arrivo, fummo meravigliati nel guardarla indicare con il ditino lo scuola-bus affollato di fanciulli vocianti che vide dalla finestra. Le mancava il contatto con gli altri bambini, voleva andare a scuola: ci accorgemmo di aver atteso e temuto quel momento.
L’inserimento nelle attività didattiche fu subito proficuo. Nella rielaborazione della propria identità, quasi sempre, il bambino adottato sente inconsciamente il bisogno di dimenticare il passato e la lingua madre, per meglio assimilarsi al nuovo contesto familiare e scolastico e così è stato per nostra figlia. Nel delicato momento in cui fu presentata la sua storia Anastasia si è sentita accolta ricambiando con affetto. Di fatto però l’inserimento di Anastasia era stato assimilato dal sistema scolastico a quello di bambini stranieri arrivati in Italia con i loro genitori, sic et simpliciter, per i quali non era necessario colmare alcun vuoto o disagio affettivo.
La storia personale dei bambini adottati, le caratteristiche e l’appartenenza a culture diverse, spesso lontane da quella di accoglienza, possono contribuire a generare una condizione di vulnerabilità di cui bisogna tenere conto nel percorso scolastico. Eppure per lei non furono individuati i fabbisogni formativi individuali, i primi tre anni di scuola erano stati cancellati di colpo: via il cirillico, via il russo, via l’ucraino, ora davanti a lei c’era un nuovo percorso didattico italiano che sbucava dal nulla.
È acclarato che nella rielaborazione della propria identità, quasi sempre, il bambino adottato sente inconsciamente il bisogno di dimenticare il passato e la lingua madre, per meglio assimilarsi al nuovo contesto familiare e scolastico e infatti Anastasia non ricorda più il russo.
Finita la scuola primaria cominciò un periodo completamente differente, certamente il più difficile in assoluto: nonostante gli sforzi della bambina, alla scuola media, non riusciva ad integrarsi nel gruppo classe. Veniva lasciata ai margini, potenziale elemento di disturbo rispetto ad un equilibrio consolidato e il suo banco singolo accanto alla cattedra rimarcava tale distanza.
Esprimersi a volte impropriamente, avere ancora un livello di comprensione incerto, e quindi una lettura della realtà inesatta, era oggetto di derisione dei compagni fra l’indifferenza dei docenti, si trattava di bullismo a tutti gli effetti.
Un giorno decise di rispondere apertamente alle domande riguardanti la sua storia, un momento che richiedeva coraggio, ma non servì ad abbattere le barriere, anzi fornì l’alibi a quell’emarginazione.
Questa zavorra emotiva ha fatto sì che la nostra Anastasia ha conosciuto la “fatica dell’imparare”, un depotenziamento cognitivo non facile da abbattere.
In queste condizioni raggiungere il traguardo della licenza media fu una sorta di liberazione.
Fortunatamente il liceo classico e l’università si sono rivelati un percorso decisamente meno ostico.
Ho potuto constatare che i deficit nella sfera affettiva si ripercuotono sulle capacità di apprendimento ed in particolare sulla comprensione del testo scritto, sull’approccio a contenuti di tipo informativo-disciplinare viste le limitate cognizioni lessicali e sintattico-argomentative. Alla luce della mia esperienza mi sento di sottolineare l’importanza che il contesto scolastico gioca per abbattere lo svantaggio psicologico-linguistico e favorire il rendimento scolastico dei bambini adottati.
Chiudo con le parole di Anastasia: “Quando ero bambina, appena arrivata in Italia, in seconda elementare credo, la maestra chiese a ciascuno di noi di rappresentare simbolicamente ogni anno di vita con un oggetto. Alcuni miei compagni portarono in classe il ciuccio, altri una scarpina ritrovata in un cassetto. Ed io? Dov’erano le tracce della mia storia? I ricordi dei primi anni hanno danzato incerti ogni sera nella penombra della mia camera oscillando come un’ombra, evanescenti come la luce di una candela.
Poi sono cresciuta e mi sono convinta che l’inaspettato a questo mondo può succedere: ho compreso di aver conquistato l’amore semplicemente per il motivo di esistere.
Ognuno ha la sua storia, ciascuno i suoi tempi per elaborare il passato, per sterilizzare le ferite in modo che non si infettino e forse un giorno vederle rimarginare.
L’infanzia negata mi ha dato un dono: la forza con la quale affrontare il futuro.”
Grazie di cuore, cara Daniela, di avermi dato modo di raccontarmi. Mamma non si nasce si diventa. Dal 2008 la nostra famiglia ne ha fatta di strada e il cerchio l’abbiamo chiuso ritornando, a distanza di dieci anni, negli stessi luoghi dove tutto nacque, in Ucraina.
Ma questa è un’altra storia.
Daniela Cavallini:
Grazie di cuore a te, cara Patrizia.
A tutti un caro abbraccio
Daniela Cavallini