Novella: “Fortuna di essere cavallo” di Luigi Pirandello

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Luigi Pirandello, “Fortuna di essere cavallo”, Novella tratta dalla Raccolta “Una giornata”, 1937, Prima pubblicazione sul “Corriere della Sera” del 23 novembre 1935.

Luigi Pirandello

La stalla è lì, dietro la porta chiusa, subito dopo l’entrata nel cortile rustico in pendio, dall’acciottolato logoro e la cisterna in mezzo.

La porta è imporrita; verde un tempo, ora ha quasi perduto il colore; come la casa, quello gialligno dell’intonaco, per cui appare la più vecchia e misera del sobborgo.

Questa mattina all’alba la porta è stata chiusa da fuori col grosso catenaccio arrugginito; e il cavallo ch’era nella stalla è stato messo fuori e lasciato lì davanti, chi sa perché, senza né briglia né sella né bisaccia; senza nemmeno la capezza.

Vi sta paziente, quasi immobile, da parecchie ore. Sente attraverso la porta chiusa l’odore della sua stalla lì prossima, l’odore del cortile; e pare che di tanto in tanto, aspirandolo con le froge dilatate, sospiri.

Risponde curiosamente a ogni sospiro un fremito nervoso del cuojo sulla schiena, dov’è il segno d’un vecchio guidalesco.

Così libero d’ogni guarnimento, la testa e tutto il corpo, si può vedere come gli anni l’han ridotto: la testa, quando la rialza, ha ancora un che di nobile ma triste; il corpo è una pietà: il dosso, tutto nodi; sporgenti le costole; i fianchi, aguzzi; spessa però ancora la criniera e lunga la coda, appena un po’ spelata.

Un cavallo che non può servire più a nulla, per dir la verità.

Che cosa aspetta lì davanti la porta?

Chi, passando, lo vede, e sa che il padrone è già partito dopo essersi portata via tutta la roba di casa per andare ad abitare in un altro paese, pensa che qualcuno forse verrà per incarico di lui a ritirarlo; benché, lasciato così sguarnito di tutto, abbia piuttosto l’aria d’un cavallo abbandonato.

Altri passanti si fermano a guardarlo, e c’è chi dice di sapere che il padrone, prima di partire, ha cercato in tutti i modi di disfarsene, tentando in principio di venderlo anche a poco prezzo, poi offrendolo a tanti in dono; anche a lui; ma nessuno l’ha voluto, nemmeno regalato; neppur lui.

Non mangiasse, un cavallo, ma mangia. E per il servizio che quello può ancora rendere così vecchio e malandato, siamo giusti, vi par che valga la spesa del fieno o anche di un po’ di paglia da dargli a mangiare?

Avere un cavallo e non saper che farsene, dev’esser pure un bell’impiccio.

Tanti, per levarselo, ricorrono al mezzo sbrigativo d’ucciderlo. Una palla di fucile costa poco. Ma non tutti hanno il cuore di farlo.

Resta però da vedere se non è più crudele abbandonarlo così. Certo, a vederlo ora davanti la porta chiusa d’una casa vuota e deserta, povera bestia, fa una gran pena. Quasi quasi verrebbe voglia di andargli a dire in un orecchio che non stia più lì ad aspettare inutilmente.

Gli avesse almeno lasciato una corda al collo per portarlo via in qualche modo; ma niente. Si vede che i guarnimenti, quelli sì, ha trovato da venderli: servono. Forse però se li sarebbe venduti lo stesso, chiunque se lo fosse preso, per poi lasciarlo nudo ugualmente in mezzo a un’altra strada.

Intanto, oh! guardate le mosche. Eh, quelle non si dirà mai che in tanta disdetta lo vogliano abbandonare. E il povero cavallo, se fa qualche movimento, è soltanto con la coda, per cacciarsele quando si sente pinzato più forte: cosa che gli avviene di frequente, ora che non ha più tanto sangue da dar loro a succhiare facilmente.

Ma già s’è stancato di star ritto su le zampe e si piega con pena sui ginocchi per riposarsi a terra, sempre con la testa verso la porta.

Non può proprio pensare d’esser libero.

Ma già, un cavallo, anche quando l’abbia davvero, la libertà, gli è forse dato di farsene una idea? L’ha, e ne gode senza pensarci. Quando gliela levano, dapprima per istinto si ribella; poi, addomesticato, si rassegna e adatta.

Forse quello, nato in qualche stalla, libero non è stato mai. Sì, da giovane in campagna probabilmente, lasciato a pascolare sui prati. Ma libertà per modo di dire; prati chiusi da staccionate. Se pure c’è stato, che ricordo può più averne?

Sta lì a terra finché la fame non lo spinge a rimettersi con maggiore stento in piedi; e poiché da quella porta, dopo una così lunga attesa, non spera più aiuto, volta la testa a guardar di lato, lungo la strada del sobborgo. Nitrisce. Raspa con uno zoccolo. Più di questo non sa fare. Ma dev’esser convinto che è inutile, perché poco dopo sbruffa e scuote il capo; poi, incerto, muove qualche passo.

C’è ormai più d’un curioso che sta a osservarlo.

Pure in campagna, dove sia coltivata, non s’ammette che un cavallo vada libero; figurarsi poi in mezzo a un abitato dove ci son donne e bambini.

Un cavallo non è come un cane che può restar senza padrone, e, se va per via, nessuno ci fa caso. Un cavallo è un cavallo; e se non lo sa, lo sanno gli altri che lo vedono, il corpo che ha, molto molto più grande di quello d’un cane, ingombrante; un corpo che non riesce mai a ispirare un’intera confidenza e da cui tutti ci si guarda perché tutt’a un tratto, non si sa mai, uno sfaglio imprevedibile; e poi con quegli occhi, con quel bianco che a volte si scopre feroce e insanguato; occhi così tutti specchianti, con un brio di guizzi e certi baleni, che nessuno comprende, d’una vita sempre in ansia, che può adombrarsi di nulla.

Non è per ingiustizia. Ma non sono gli occhi d’un cane, umani, che chiedono scusa o pietà, che sanno anche fingere, con certi sguardi a cui la nostra ipocrisia non ha più nulla da insegnare.

Gli occhi d’un cavallo, ci vedi tutto, ma non ci puoi legger nulla.

È vero che questo, così mal ridotto com’è, non pare a nessuno che possa essere pericoloso. Ma, comunque, perché impicciarsene?

Vada pure; se qualcuno sarà molestato, ci penserà lui a scostarlo, a cacciarlo; o ci penseranno le guardie.

Ragazzi, non tirate sassi. Vedete che non ha più nulla addosso? Così libero e sciolto, se piglia la fuga, chi lo para?

Stiamo piuttosto a vedere tranquillamente dove va.

Ecco, prima da uno là che fabbrica pasta al tornio e la tiene stesa ad asciugare all’aperto su certi telai di rete posati su cavalietti traballanti.

Oh Dio, se s’accosta, li fa cadere.

Ma il pastajo accorre in tempo a pararlo e lo spinge via. Sacr… di chi è questo cavallo?

I monelli non reggono più, gli corrono dietro, gridando, ridendo.

– Un cavallo scappato?

– No: abbandonato.

– Come, abbandonato?

– Ma così. Lasciato dal padrone. Libero.

– Ah sì? Allora un cavallo che se ne va a spasso per conto suo, per le vie del paese?

Eh via, d’un uomo si vorrebbe sapere se non è pazzo. Ma d’un cavallo che volete sapere? Un cavallo sa soltanto che ha fame. Ora, più là, allunga il muso verso un bel cesto d’insalata esposto fra tanti altri davanti alla bottega d’un erbivendolo.

È respinto malamente anche da lì.

Alle botte è avvezzo, e se le prenderebbe in pace, se poi con questo lo lasciassero mangiare. Ma proprio non vogliono che mangi. Più resiste per dimostrare che non gì’importa delle botte, e più gli storcono il collo per tenergli il muso lontano da quel bel cesto d’insalata. E la sua ostinazione fa ridere. Ma ci vuol tanto a comprendere che quell’insalata è lì esposta per esser venduta a chi voglia mangiarsela? E una cosa così semplice. E, perché il cavallo dimostra di non comprenderla, tutte quelle risa sguajate.

Bestia! non ha neppure un filo di paglia da mangiare, e vorrebbe l’insalata.

Nessuno s’immagina che una bestia, dal canto suo, può vedere in tutt’altro modo, veramente più semplice, la cosa. Ma nulla da fare.

E il cavallo se ne va, col seguito di tutti quei monelli, i quali, dopo la bella dimostrazione data, di sapersi pigliar le botte così in pace, chi li tiene più? Gli fanno attorno una gazzarra d’inferno. Tanto che il cavallo a un certo punto si ferma stordito, come per cercare il modo di farla finita. Accorre un vecchio ad ammonire i monelli che coi cavalli non si scherza.

– Vedete come s’è fermato?

E il vecchio alza una mano verso il collo del cavallo per placarlo e rassicurarlo. Ma subito questo dà un balzo sghembo, drizzando le orecchie. Il vecchio, che non se l’aspetta, dapprima ci resta male, ma poi vede in quell’atto la prova di quanto ha detto e ripete:

– Ecco, vedete?

La prova giova per un momento. I monelli riprendono a seguire il cavallo tenendosi a distanza. Dove va?

Avanti. Senza più osare accostarsi ad altre botteghe, attraversa tutta la strada del sobborgo in cima al colle, e dove questa comincia a discendere, disabitata per un lungo tratto, si riferma indeciso.

È chiaro che non sa più dove andare.

Spira, in quel tratto di strada, un po’ di vento. E il cavallo alza la testa, come a berlo, e socchiude gli occhi, forse perché vi sente l’odore dell’erba lontana, dei campi.

Resta lì fermo a lungo, a lungo, così con gli occhi socchiusi e il ciuffo che, ai soffii di quel vento, gli si muove lieve sulla fronte dura.

Ma non commoviamoci. Non dimentichiamo la fortuna che ha quel cavallo, come ogni altro: la fortuna d’esser cavallo.

Se i primi monelli si sono alla fine stancati di starlo a guardare e se ne sono andati, altri e altri in più gran numero gli fanno allegro codazzo quando sul tardi, venendo chi sa di dove come nuovo, stranamente esaltato da una ebbra impazienza per la fame, ecco, a testa alta, si presenta in mezzo al corso principale del paese e si pianta lì grattando con uno zoccolo il duro lastricato, come per dire: comando che mi si porti subito da mangiare qua, qua, qua.

Fischi, applausi, risa, gridi d’ogni genere si levano a quel gesto imperioso; la gente accorre, lasciando i tavolini del Caffè, le botteghe; tutti vogliono sapere di quel cavallo – scappato – non scappato – abbandonato – finché due guardie si fanno largo tra la ressa; l’una afferra per la criniera il cavallo e lo trascina via, mentre l’altra impedisce ai monelli di seguirlo, ributtandoli indietro.

Condotto fuori dell’abitato, dopo le ultime case e le fabbriche, passato il ponte, il cavallo, che non s’è reso conto di nulla, una sola cosa avverte: l’odore dell’erba, questa volta vicina, là sulle prode della strada oltre il ponte, che conduce alla campagna.

Perché tra le tante disgrazie che gli possono occorrere, capitando sotto gli uomini, un cavallo ha almeno sempre questa fortuna: che non pensa a nulla. Nemmeno d’esser libero. Né dove o come andrà a finire. Nulla. Lo cacceranno da per tutto? Lo butteranno a sfragellarsi in un burrone?

Ora, per il momento, mangia l’erba della proda. La sera è mite. Il cielo è stellato. Domani sarà quel che sarà. Non ci pensa.

Luigi Pirandello

L’opera in copertina è di Pippo Vaccaro, “Lo stallone italiano”, olio su tela, 50×70 cm., 2010

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