Il secondo romanzo della scrittrice tarantina di stanza a Roma – anche poetessa e studiosa di Isabel Allende e Alda Merini – sembra inserirsi, rafforzandolo, nel percorso di indagine personale (cosa all’occorrenza ben diversa da quella autobiografica) avviato nel precedente e pluripremiato “Maddalena bipolare”.
Strutturandosi attorno alle due relazioni – distanziate da un decennio – con Michele, poi diventato fotografo come la protagonista, e col musicista Lorenzo, il racconto riporta le continue disamine di una quasi trentenne scandite dai piccoli grandi eventi di una vita ordinaria eppure insidiata da una pensosità spigolosa. La penetrante speculazione di Rossana non fa passare nulla per scontato, investendo senza sosta le relazioni – familiari, amicali e sentimentali che siano – e la sua stessa professione come proiezioni di un egoismo analitico che non ammette pause.
L’“istinto-occhio scaltro a capire subito l’altro” (“proprio perché capisco me stessa”, si puntualizza subito dopo), conseguenza anche di “orecchie sensibili come due antenne”, è il motore di un sentire che registra azioni, dialoghi, abitudini e pensieri subordinandole al piano di un’introspezione pervasiva. Le esperienze, emotive o fisiologiche che siano, appaiono devitalizzate e prive di polarità significative: emblematico il trattamento riservato a un sesso nel complesso poco sentito (nonché evocato con qualche reticenza frutto di estremo disincanto affettivo), mentre il cibo è soprattutto medium punitivo associato a disturbi alimentari.
Tra le righe appare strategica anche la tematica riguardante il mestiere della protagonista, che accompagna in filigrana la dialettica dell’essere e dell’apparire, tra convenienze esterne procacciatrici di noia e riflessività interna foriera di frustrazione.
In una trama puntellata di segni disforici, assoggettata all’umoralità di un vivere “tutto a sbalzi” tra virtuale focosità e sostanziale frigidezza, giudizi e definizioni (specie su una se stessa intesa come “Io meno gli altri”) scandiscono il percorso con autoinganni e conseguenti ricerche di compensazioni emotive e interpersonali.
La Spagnulo gestisce abilmente quest’accidentato itinerario cosparso d’ipertrofia analitica, in cui la ragnatela di focalizzazioni rimuginanti finisce (paradossalmente ma non troppo) con l’opacizzare il fulcro esistenziale della protagonista, impedendone una piena realizzazione identitaria. Rossana è in perenne confronto col prossimo: gli uomini “invadenti”, le donne “invidiose”, il rapporto con la famiglia senza scatti; solo un paio di amici universitari regalano affettività disinteressata, mentre l’unico riferimento autorevole, un vecchio attore la cui attrattiva risiede nel carisma dell’arte, finisce suicida.
“Negativi di una negazione” è in definitiva un libro monoritmico, privo di colpi di scena perché integralmente assorbito in un’atmosfera introspettiva. Giocando sul titolo, si potrebbe parlare di romanzo “in negativo”, scevro da plasticità drammatica, essendo tutto filtrato dal flusso prospettico dell’io narrante femminile.
L’alternanza di racconto e riflessioni, articolato su andirivieni temporali come si confà a un’esplorazione interiore, fa assumere profili sfumati alla pressoché globalità dei fatti, che appaiono (a partire dal suicidio di cui sopra) “accidenti” quasi astratti, anestetizzati dall’impianto iperscrutatore del punto di vista.
Quest’opera della Spagnulo è in definitiva una sorta di diario fittizio puntiglioso e pregevole, talvolta ai limiti dell’ossessività, in cui la contraddizione degli aspetti vitalistici e interpersonali da parte degli elementi invece elucubrativi e cerebrali finisce per condurre, esistenzialmente, a quella stessa “penombra” che Rossana afferma di perseguire nella sua professione: una lettura attenta di tale ricerca è appassionante, pur nella consapevolezza che la catarsi non è (ancora) avvenuta.
Alberto Raffaelli

Il libro:
Ornella Spagnulo, “Negativi di una relazione”, Firenze, Porto Seguro Editore, 2022
Il gruppo di “Segnalazioni Letterarie”:
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