Angela Caccia, poetessa e scrittrice | INTERVIST

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«Ciò che si traduce in parole – poeta o scrittore che sia – è sempre il risultato di quanto, una volta letto, è diventato carne e sangue » (Angela Caccia)

Angela Caccia

Ciao Angela, benvenuta. Grazie per la tua disponibilità e per aver accettato il nostro invito. Se volessi presentarti ai nostri lettori, cosa racconteresti di te quale Angela poetessa e scrittrice?

Racconterei che ad Angela piace scrivere versi e, sporadicamente, prosa; che sente incombente la qualifica di poetessa – figuriamoci quella di scrittrice, che bazzica di meno! – e che, ancora oggi, si identifica nel verso che fa da chiave di lettura al suo blog   Vivo la mia periferia/nell’insana nostalgia del centro/- dice il cuore

… chi è invece Angela donna che vive la sua quotidianità e cosa fa al di fuori dell’arte dello scrivere che puoi raccontarci?

La mia è prevalentemente quotidianità di madre – raccolgo calzini sporchi, riassetto casa, cucino per chi è a dieta e per chi no, a tutto ciò s’aggiunge il lavoro di ufficio. Sono la Marta della situazione, ma la Maria, a cui piace essere meno pragmatica, si sveglia sempre prima dell’altra, sa di essere il vero motore della giornata. Ecco, allora, che precedo l’alba e con una tazzona di caffè fumante mi posiziono davanti al computer a leggere, scrivere o anche semplicemente pensare. Un rapporto strano quello con le parole – e, tutto sommato, anche col pensiero -, d’amore e odio. Così, mi capita di allentare la presa nei confronti di entrambi e dedicarmi a qualcosa che sento più istintuale come la lavorazione di porcellana fredda o il chiaroscuro. Adoro giocare a scacchi: prendo tante di quelle mazzate che, quando vinco, mi frulla per ore lo schema delle ultime mosse

Chi sono e chi sono stati i tuoi maestri d’arte, se vogliamo usare questo termine? Qual è stato il tuo percorso artistico/formativo ed esperienziale nel mondo della scrittura e della poesia?

Non credo di aver mirato a specifici prototipi, piuttosto ho cercato di capire se mai avrei avuto un’espressione tutta mia, sino ad uno stile. Sono stata follemente innamorata – e mi capita tutt’ora di esserlo – di alcuni poeti e pensatori: da Celan alla Dapunt, dalla Guidacci a Walcott, da Nietzsche a Natoli, dall’amatissima Zambrano a Cacciari e Galimberti. Li leggevo – alcuni li riprendo anche ora – fin quando mi accorgevo di essere stata gratificata di una qualche commistione, come un piccolissimo innesto: ciò che si traduce in parole – poeta o scrittore che sia – è sempre il risultato di quanto, una volta letto, è diventato carne e sangue. Più che uno stile preferisco ancora parlare di vezzi: nel verso evito la punteggiatura – escluso i trattini alla Dickinson – così lo modulo come un personale spartito: il ritmo lo cadenzo con rientri del rigo. Lo vorrei sempre più asciutto – almeno, ci provo…

Come definiresti il tuo stile poetico e la tua poetica? C’è qualche poeta del passato o del presente al quale ti ispiri?

Non so rispondere a questa domanda, né so inquadrarmi in qualcosa di specifico e fisso – mi sa un po’ di lapide – lascio alla bontà di chi mi recensisce la noia di decriptare il tutto. E, comunque, è sempre il momento che si porta sul foglio a scegliere parole musicalità ritmo, a volte si rientra in degli schemi, a volte no.

Raccontaci delle tue poesie e dei tuoi libri. Quali sono che ami ricordare e di cui vuoi parlare ai nostri lettori?

I libri sono stati caravanserragli, l’isola felice, la nuvoletta di Snupy. Tutti hanno spostato un po’ più in alto l’asticella costringendomi, dopo, a dare un di più o un diverso, ad essere più selettiva e scarna, restando sempre impietosamente e irrimediabilmente critica nei confronti del lavoro svolto. Ci sono poesie a cui tengo perché “mi raccolgono e mi raccontano”, di alcune assaporo ancora l’atmosfera: è di molti anni fa, io e mio figlio sul balcone, all’una di una notte estiva come non mai

 NOI L’AURORA

E chiedi a me

il senso della vita

 

a me

che ho mille risposte

e nessuna

– forse una certezza:

di lui, mio padre,

mi resta un’orma fonda

e la sua morte.

 

Un rubino il sole stamattina

il cielo lo reggevano gli alberi

 

un abbraccio questa notte d’estate

e noi abbandonati

senza più pelle

nella sua nota

dolcissima e muta …

 

Restiamo insieme

ti prego

in quei pensieri informi

ciottoli che si staccano

da un monte, rumori sordi,

alcuni senza tonfo

rapiti da una pietosa luna

 

e insieme

nell’ultimo spicciolo di notte

saremo noi l’aurora

gli occhi puntati ad est

e il fiato corto.

 

Quest’altra è più recente, fa parte di una silloge intitolata “Malinconico felice” che dovrebbe essere pubblicata nell’anno da una splendida Casa editrice. Mi piacciono questi versi perché riflettono una costante della mia e, presumo, della vita di tutti: la fatica di imparare a conoscersi.

    Sarà servito a qualcosa

leggere Omero    lasciarsi disturbare

il sonno da una mail  

vivere

fino la ferita

e al grido sotterraneo uscire fuori dal calcolo?

   Sarà servito

innamorarsi    spartire

in due il peso di sé stessi

lasciarsi incurvare sino a fare

del dubbio l’unico fronte di liberazione?

 

… come Giacobbe e la sua anca rotta

lottare col proprio Angelo

per meritarsi il nome

«Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.» (Giovanni Falcone, “Cose di cosa nostra”, VII ed., Rizzoli libri spa, Milano, 2016, p. 25 | I edizione 1991). Tu a quale categoria di persone appartieni, volendo rimanere nelle parole di Giovanni Falcone? Sei una persona che punta un obiettivo e cerca in tutti i modi di raggiungerlo con determinazione e impegno, oppure pensi che conti molto il fato e la fortuna per avere successo nella vita e nelle cose che si fanno, al di là dei talenti posseduti e dell’impegno e della disciplina che mettiamo in quello che facciamo?

Mi ricordi un episodio di anni fa: mio figlio adolescente, nel pieno della tempesta di quell’età, si incolpava di perdere tempo inseguendo un sogno, ed io a replicargli che, essendo cosa fattibile quella meta, aveva sì colpa, ma di non credere abbastanza in quel sogno. Puntare un obiettivo vuol dire armarsi di una perseveranza coriacea, quasi ossessiva: un sogno alto che s’accenda di possibilità merita fatica e lotta perché avvenga l’alchimia e si trasformi in realtà. Ma la perseveranza deve anche essere supportata e illuminata da una specifica intelligenza – leggasi, consapevolezza dei propri e altrui limiti da cui, magari, dipende l’obiettivo, di sbarramenti invalicabili, della mancanza di un kairos che strema il cammino sino a indebolirlo. L’intelligenza, insomma, di saper desistere quando il gioco non vale più la candela. C’è un termine ebraico a cui la frase di Falcone mi riporta: dabar, che indicherebbe, all’unisono, parola e fatto, pensiero e azione come a voler sottolineare che nel proposito c’è, anzi, “deve” essere insita l’azione: un termine che, correlato a lui e alla sua missione, svela la tempra e la grandezza di un uomo; vestito, invece, da noi – poveri mortali – quel termine è il tentativo della coerenza, di chi sa, socraticamente sa, che la parola di un uomo è parola responsabile solo se ha il peso di essere supportata da fatti correlati.

«…anche l’amore era fra le esperienze mistiche e pericolose, perché toglie l’uomo dalle braccia della ragione e lo lascia letteralmente sospeso a mezz’aria sopra un abisso senza fondo.» (Robert Musil, “L’uomo senza qualità”, Volume primo, p. 28, Einaudi ed., 1996, Torino). Cosa pensi di questa frase di Robert Musil? Cos’è l’amore per te e come secondo te è vissuto oggi l’amore nella nostra società contemporanea, tecnologica e social?

Devo aver scritto nella quarta di copertina di una silloge che amare è voce del verbo curare, e questo, per me, è un punto cardine. Non ho molte certezze, anzi… Nel tempo ho imparato che è meglio convivere coi dubbi che sistemarsi comodi in un regno di convinzioni ben costruite e studiate: regni con troni di paglia! La verità è una pienezza irraggiungibile, a noi umani toccano sporadiche briciole e, tra le mie, che sono già pochissime, so, per certo, che amare è un impegno da assolvere con coraggio e costanza e la messa in conto dell’“errore comunque”. La frase di Musil l’ha tradotta magistralmente Klimt nel suo Il bacio, dove lui e lei, per quanto avvinti, restano sospesi su un abisso. Amore, amare, sono cose serie a cui bisogna essere instradati con la buona educazione ai sentimenti. Funzione, questa, che si spartivano scuola chiesa e famiglia, ma oggi non sono più in sincrono, con l’aggravante di una società tecnologica e social che gioca al ribasso se cristallizza al mordi e fuggi: dove trova tempo e spazio un seme per radicare e assicurare frutti?

«Direi che sono disgustato, o ancor meglio nauseato … C’è in giro un sacco di poesia accademica. Mi arrivano libri o riviste da studenti che hanno pochissima energia … non hanno fuoco o pazzia. La gente affabile non crea molto bene. Questo non si applica soltanto ai giovani. Il poeta, più di tutti, deve forgiarsi tra le fiamme degli stenti. Troppo latte materno non va bene. Se il tipo di poesia è buona, io non ne ho vista. La teoria degli stenti e delle privazioni può essere vecchia, ma è diventata vecchia perché era buona … Il mio contributo è stato quello di rendere la poesia più libera e più semplificata, l’ho resa più umana. L’ho resa più facile da seguire per gli altri. Ho insegnato loro che si può scrivere una poesia allo stesso modo in cui si può scrivere una lettera, che una poesia può perfino intrattenere, e che non ci deve essere per forza qualcosa di sacro in essa.» (Intervista di William Childress, Charles Bukowski, “Poetry Now, vol. 1, n.6, 1974, pp 1, 19, 21.). Tu da poeta cosa ne pensi in proposito? Ha ragione Bukowski a dire queste cose? Cosa è oggi la poesia per te, riprendendo il pensiero di Bukowski?

Condivido l’estremismo del fuoco e quella sorta di pazzia. In una nuova silloge, ancora inedita, introduco una sezione con alcuni versi

 

A misura del pane fragrante

il verso sa

quant’è la tua fame

quale la sete di cui muori

                              Lascia convivere il pazzo

                              l’idiota

                              il poeta

                        e riposerai sull’affascinante

 

Che poi si possa scrivere una poesia come si scrivesse una lettera, be’, lì ho seri dubbi: la poesia – e qui sono con Cacciari – risponde all’etica del devo e ha a che fare con l’abisso della parola, che è molto prossimo al nostro di abisso. E a rievocare quell’abisso, o a scongiurarlo, servono ritmi e suoni che non sono della prosa.

Né, a mio parere, è d’obbligo il sacro, ma la tensione a un oltre sì, che poi è prevalentemente mistero. Per dirla con Klee, arte è il tentativo di cercare l’infinito nel finito, la feritoia da cui una minima lama di luce e lo sguardo che si convince di un “oltre il buio”. Fuori da questi schemi, c’è la buona prosa, i prosimetri e prosa altamente poetica, ma la poesia resta altro, almeno per me.

«Il ruolo del poeta è pressoché nullo … tristemente nullo … il poeta, per definizione, è un mezzo uomo – un mollaccione, non è una persona reale, e non ha la forza di guidare uomini veri in questioni di sangue e coraggio.» (Intervista ad Arnold Kaye, Charles Bukowski Speaks Out, “Literary Times”, Chicaco, vol 2, n. 4, March 1963, pp. 1-7). Qual è la tua idea in proposito rispetto alle parole di Bukowski? Cosa pensi del ruolo del poeta nella società contemporanea, oggi social e tecnologica fino alla esasperazione? Oggi al poeta, secondo te, viene riconosciuto un ruolo sociale e culturale, oppure, come dice Bukowski, fa parte di una “élite” di intellettuali che si autoincensano reciprocamente, una sorta di “club” riservato ed esclusivo, senza incidere realmente nella società e nella cultura contemporanea?

«Il ruolo del poeta è pressoché nullo … tristemente nullo … il poeta, per definizione, è un mezzo uomo – un mollaccione». Ma quanta brutta gente ha conosciuto Bukowski! E poi va ridimensionata quell’idea che i poeti siano una sorta di élite” di intellettuali che si autoincensano reciprocamente. Certo, c’è anche questa fetta di buio nella cerchia, ed è quanto di più fallimentare esista perché rende un pessimo servizio alla poesia in genere, gruppi assimilabili a mercenari e prostitute. Ma al di là di questa bruttura, se la poesia è una Cenerentola è perché promette magie solo a quanti hanno imparato a sostare in lei, a chi abbassa le difese e si fa ospite nel doppio significato di “colui che accoglie” facendo in sé lo spazio dovuto, e “colui che viene ospitato” come fosse un forestiero in cerca di rifugio. Leggere o scrivere di poesia è una vera e propria palestra, più t’alleni più raccogli risultati che non per forza si traducono in consensi o vittorie in concorsi letterari, ma restituisce pienezze che non si otterrebbero altrove.

«La lettura di buoni libri è una conversazione con i migliori uomini dei secoli passati che ne sono stati gli autori, anzi come una conversazione meditata, nella quale essi ci rivelano i loro pensieri migliori» (René Descartes in “Il discorso del metodo”, Leida, 1637). Qualche secolo dopo Marcel Proust dice invece che: «La lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano, Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998, p.30). Tu cosa ne pensi in proposito? Cos’è oggi leggere un libro? È davvero una conversazione con chi lo ha scritto, come dice Cartesio, oppure è “ricevere un pensiero nella solitudine” come dice Proust? Dicci il tuo pensiero…

Angela Caccia

Forse si dovrebbe pensare ad una “conversazione a tre” e mi rifaccio alla parabola di Claudel e ai suoi protagonisti: Animus, l’io di facciata, Anima, l’io interiore – il terzo interlocutore è l’autore del libro che si sta leggendo, che ha il bene di chiamare in causa il primo e il secondo “io” e, oscillando tra loro, li mette in stretta connessione. È questa interazione che crea la bontà di un libro favorendo consapevolezze

«Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Cosa ne pensi tu in proposito? Cosa legge il lettore in uno scritto? Quello che ha nella testa “chi lo ha scritto” oppure quello che gli appartiene e che altrimenti non vedrebbe?

Ogni lettore legge, sì, sé stesso ma, più o meno consapevolmente, cerca, in ciò che legge, qualcosa per superarsi, una sorta di trampolino che gli conceda di andare oltre la tappa raggiunta, oltre il pezzo di orizzonte che gli si para davanti. Leggere è un decifrare e un decifrarsi, è lo scorrere del dito su un’immaginaria cartina geografica per capire dove sono, dove sto andando, dove potrei andare.

«I perdenti, come gli autodidatti, hanno sempre conoscenze più vaste dei vincenti, se vuoi vincere devi sapere una cosa sola e non perdere tempo a saperle tutte, il piacere dell’erudizione è riservato ai perdenti.» (Umberto Eco, “Numero Zero”, Bompiani ed., Milano, 2015). Cosa ne pensi di questa frase del grande maestro Umberto Eco? In generale e nel mondo dell’arte, della cultura, della letteratura contemporanea? Come secondo te va interpretata considerato che oggi le TV, i mass media, i giornali, i social sono popolati da “opinionisti-tuttologi” che si presentato come coloro che sanno “tutto di tutto” ma poi non sanno “niente di niente”, ma vengono subdolamente utilizzati per creare “opinione” nella gente comune e, se vogliamo, nel “popolo” che magari di alcuni argomenti e temi sa poco? Come mai secondo te oggi il mondo contemporaneo occidentale non si affida più a chi le cose le sa veramente, dal punto di vista professionale, accademico, scientifico, conoscitivo ed esperienziale, ma si affida e utilizza esclusivamente personaggi che giustamente Umberto Eco definisce “autodidatti” – e che io chiamo “tuttologi incompetenti” – ma che hanno assunto una posizione di visibilità predominante che certamente influenza perversamente il loro pubblico? Una posizione di predominio culturale all’insegna della tuttologia e per certi versi di una sorta di disonestà intellettuale che da questa prospettiva ha invaso il nostro Paese? Come ne escono l’Arte e la Cultura da tutto questo secondo te?

Quanta roba e quante sollecitazioni!… Ti leggevo e una parte di me ricordava quel passaggio ne L’Inquisitore di Dostoevskij dove si rimprovera Gesù per aver gravato l’uomo di un così grande fardello come la libertà. È su questo tema che ci giochiamo tutto con un tiro di dadi: cosa voglio farne della mia libertà? la consegno al pastore che – Nietzsche docet – porterà quelle pecore al macello, oppure, imparo a reggerlo “sto fardello”?

Quando parliamo di bellezza, siamo così sicuri che quello che noi nati nel Novecento intendiamo per bellezza sia lo stesso, per esempio, per i ragazzi della Generazione Z o per i Millennial, per gli adolescenti nati nel Ventunesimo secolo? E se questi canoni non sono uguali tra loro, quando parliamo di bellezza che salverà il mondo, a quale bellezza ci riferiamo?

Credo che la bellezza – il senso della bellezza, quella che non sai spiegare ma ti accende dentro, e quando tenti di concettualizzarla ne perdi sempre qualche pezzo  – sia un lavoro di staffetta: un testimone che ogni generazione cede all’altra, insieme alla speranza di un tratto di strada in più, ed ogni passo porta la polvere del passo precedente

Esiste oggi secondo te una disciplina che educa alla bellezza? La cosiddetta estetica della cultura dell’antica Grecia e della filosofia speculativa di fine Ottocento inizi Novecento?

Educare è verbo che sta in una stretta correlazione con l’insegnare: e-ducere che, in senso lato, dovrebbe tendere a “portare fuori” il talento al bello. Ma, per individuare il proprio personale talento, è bene fare incetta dei segni importanti – insegnare: intridere segni – attinenti a quel bello. Ecco, allora, che diventa vitale, non tanto questa o quella disciplina, ma il modo in cui si trasmette la propria passione in una qualsivoglia disciplina: insegnare più di pancia e non di testa fa venire voglia di conoscersi, scoprire la propria passione e mettersi in gioco

Se casualmente ti ritrovassi in ascensore con un grande editore quale Einaudi, Feltrinelli, Rizzoli, Mondadori, tu e l’Amministratore Delegato di una di queste Case Editrici importantissime, da soli, e avessi un minuto di tempo per sfruttare quell’occasione incredibile e imprevedibile, presentarti e convincerlo a pubblicare il tuo libro, cosa gli diresti di te quale poeta e autore?

Mai saputo vendere la pelle dell’orso! Sono una tale frana nel promuovere me stessa che ci rinuncio in partenza. Come tanti, ho rincorso – e sofferto – il sogno di poter essere pubblicata da una maior e so di amici che hanno dovuto subire tanti compromessi per realizzare quel sogno: negoziazioni strane e troppi Picone che facevano da tramite. Si rischia di svilire la propria dignità artistica e, una volta offesa, che sia un pizzico o una montagna, ciò che resta sono macerie, perché franano le fondamenta della fiducia nelle proprie capacità. Purtroppo, oggi, come ieri, sono dal “vaffa” facile se mi si chiede di tradirmi: non ho molte cose a cui tenere, e questo pezzettino di artistico è una di quelle e lo difendo con unghie e denti.

Se per un momento dovessi pensare alle persone che ti hanno dato una mano, che ti hanno aiutato significativamente nella tua vita artistica e umana, soprattutto nei momenti di difficoltà e di insicurezza che hai vissuto, che sono state determinanti per le tue scelte professionali e di vita portandoti a prendere quelle decisioni che ti hanno condotto dove sei oggi, a realizzare i tuoi sogni, a chi penseresti? Chi sono queste persone che ti senti di ringraziare pubblicamente in questa intervista, e perché proprio loro?

Sono tante le persone che ho amato, che amo e che mi lusingano di attenzione e affetto. Non potrei citarne una, senza ricordarne ancora una dozzina. Dico solo che sono molto fortunata: non avrò incontrato Feltrinelli o Mondadori, ma quanto affetto e stima e gratitudine – e, quindi, felicità – mi hanno dato i sani incontri …

Se dovessi consigliare ai nostri lettori tre film da vedere quali consiglieresti e perché?

Preferirei evitare questa domanda: non vedo molti film, preferisco i polizieschi e, di solito, anche quelli mi fanno da ninna nanna. Se poi un film mi prende, già dai titoli di coda continuo a rimuginare sulle scene salienti, comincio a scrivere considerazioni, immagino finali o svolte diversi, e addio nanna!

E tre libri da leggere assolutamente nei prossimi mesi? Quali e perché proprio quelli?

Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin – a tratti macabro, molte pagine potevano evitarsi perché di nessuna utilità alla funzionalità del racconto, è decisamente catartico. Tutta la Produzione di Roberta Dapunt, pezzi d’umanità in poesia che si fa istintuale. L’Idiota di Fëdor Dostoevskij, ad oggi non ho letto un altro libro capace di far provare sia l’abisso che la vetta.

I tuoi prossimi progetti? Cosa ti aspetta nel tuo futuro professionale e artistico che puoi raccontarci?

Lasciando perdere sia il campo professionale che artistico, bramo spasimo boccheggio per la pensione perché è da lì che inizierò a pensare a cosa farò da grande

Dove potranno seguirti i nostri lettori?

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Mi racconto un po’ su Facebook un po’ sul blog-

Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa intervista?

È stata una piacevole chiacchierata, domande stuzzicanti che mi hanno tirato parole più di quante me ne prefiggo per evitare la pedanteria che, quando si parla di sé, è sempre in agguato.

Al tuo benvenuto di inizio pagina rispondo con la mia felicità di averti incontrato.

Cosa dire a chi ha avuto la pazienza di leggermi sin qui? Piacere!… mi chiamo Angela.

Angela Caccia

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Andrea Giostra

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Andrea Giostra al mercato di Ballarò a Palermo