In questo articolo affronto due concetti chiave legati alla transizione energetica: l’impronta di carbonio (carbon footprint) e l’impronta idrica (water footprint). Entrambi rappresentano misurazioni critiche per valutare e migliorare l’impatto ambientale delle attività aziendali.
Con il termine Carbon Water footprint (scritto di seguito) si identifica l’impatto potenziale di un prodotto, valutato lungo l’intero ciclo di vita, in termini di emissioni di gas serra e di consumo e degradazione delle risorse idriche. Potrei quindi affermare che si tratta dell’ammontare totale delle emissioni di gas con effetto serra causate direttamente o indirettamente anche da un individuo, un’organizzazione, un evento o un prodotto, e si riferisce anche alla misura della quantità di acqua utilizzata per produrre un bene o servizio.
La Carbon e la Water Footprint di un prodotto si stanno rapidamente diffondendo nel settore agroalimentare come strumenti di conoscenza e miglioramento, ma anche di comunicazione e marketing.
Va da sé che tutti i prodotti di uso quotidiano generano impatti ambientali lungo il loro ciclo di vita: durante l’estrazione e la lavorazione delle materie prime, la produzione, il trasporto e nella maggior parte dei casi anche durante l’utilizzo e il trattamento a fine vita.
L’insieme delle emissioni di gas serra (CO2, CH4, Ossido nitroso N2O, Idrofluorocarburi HFCs, Perfluorocarburi PFCs ed Esafloruro di zolfo SF) del ciclo vita, attribuibili a un’organizzazione o un prodotto sono denominati Carbon Footprint (CF) letteralmente tradotto con impronta di carbonio.
La CF è un indicatore espresso in kg di potenziale di riscaldamento globale in un periodo definito, solitamente 100 anni (es. Global Warming Potential – GWP 100), e viene espresso in kg di CO2 equivalenti: questa unità di misura consente di calcolare l’impatto che tali emissioni hanno sui cambiamenti climatici. Molto probabilmente sui tuoi biglietti aerei hai già trovato la voce emissione Co2. Molte compagnie aeree aderiscono al Carbon offset: il Carbon offsetting è un meccanismo che permette a organizzazioni e individui di compensare le proprie emissioni di CO2 attraverso il supporto a progetti certificati di riduzione delle emissioni, i quali assorbono o evitano la CO2.
L’insieme degli impatti sulle risorse idriche generati da un prodotto, o un’organizzazione, durante il suo ciclo di vita è denominato invece Water Footprint (WF). L’impronta idrica è dunque un indicatore del consumo di acqua dolce che include sia l’uso diretto che indiretto di acqua da parte di un’azienda produttrice. L’impronta idrica di un singolo, una comunità o di un’azienda è definita come il volume totale di acqua dolce potabile utilizzata per produrre beni e servizi, misurata in termini di volumi d’acqua consumati (evaporati o incorporati in un prodotto) e inquinati per unità di tempo.
Nel settore green incontriamo diverse sigle, terminologie sconosciute ai più che indicano realtà che merita conoscere: con l’acronimo LCA si intende invece il Life Cycle Assessment ovvero la produzione, imballaggio, stoccaggio, trasporto, vendita, consumo e smaltimento di un prodotto. Immagina quando sei in Sardegna e bevi l’acqua delle Alpi Cozie o quando vivi a Garessio (Cn) e vuoi bere la Ferrarelle. Il concetto è questo…
WATER FOOTPRINT?
La gestione sostenibile dell’acqua è vitale per affrontare la crescente scarsità idrica globale (concetto paradossale in un’epoca in cui le precipitazioni atmosferiche inondano interi territori, devastandoli).
L’impronta idrica di fatto misura il volume totale di acqua dolce utilizzata per produrre i beni e i servizi consumati, includendo l’acqua utilizzata lungo tutta la catena di produzione. Questo concetto si suddivide in tre componenti:
- acqua blu: l’acqua prelevata da risorse di superficie o sotterranee che non ritorna immediatamente al punto da cui è stata prelevata;
- acqua verde: l’acqua piovana che viene immagazzinata nel suolo e utilizzata dalle piante;
- acqua grigia: l’acqua necessaria per diluire gli inquinanti al fine di mantenere la qualità dell’acqua.
I VANTAGGI PER LE AZIENDE
Le aziende che adottano strategie per ridurre le proprie emissioni non solo contribuiscono alla lotta contro il riscaldamento globale, ma spesso riscontrano anche benefici economici, come la riduzione dei costi energetici e l’accesso a nuovi mercati di consumatori sempre più attenti alla sostenibilità.
Ridurre l’impronta di carbonio è cruciale per mitigare i cambiamenti climatici anche se recenti scoperte confermano che a quota 4000 metri vivevano le marmotte in epoche piuttosto recenti. Senza prendere posizione in merito alla questione planetaria, pubblico questo articolo perché ritengo sia importante comprendere il valore dei marchi che troviamo sulla confezione di alcuni alimenti; se poi l’uomo sia il vero responsabile del surriscaldamento terrestre rimane un dilemma ca cui ognuno risponderà secondo propria cultura.
Molte delle aziende che vogliono intraprendere un percorso di sostenibilità nell’ambito dei criteri ESG (ambientali, sociali e di governance) si fregiano quindi del marchio footprint; esso rappresenta spesso il punto di partenza per:
- ridurre impatto ambientale dei processi produttivi;
- aumentare l’efficienza dei processi produttivi, in termini di risparmio energetico, di risorse idriche e di mezzi tecnici utilizzati;
- conquistare nuove fette di mercato, attirando i clienti e i consumatori più sensibili alla qualità ambientale dei propri vini;
- dare evidenza al mercato e ai consumatori su quali sono i processi e i prodotti più virtuosi sotto il profilo ambientale per raggiungere l’obiettivo di mitigare il più possibile i cambiamenti climatici.
- migliorare la resilienza alle crisi idriche, assicurarsi una fornitura idrica sostenibile e migliorare la reputazione tra gli stakeholders.
CI SONO VANTAGGI PER I CONSUMATORI?
Ogni essere umano lascia “un’impronta di carbonio” da 7 tonnellate all’anno, alcune fonti sostengono 11,7. Ma come dissentire?
Quando ogni individuo dovrà pagare per l’emissione di inquinanti molto probabilmente acquistare prodotti footprint sarà determinante ai fini di uno sgravio fiscale.
Alcuni autori informano che il tempo in cui dovremo rendere conto di questa situazione sia imminente; le aziende certificatrici nascono come funghi in autunno. I costi medi per un’azienda che desidera ottenere il marchio sono piuttosto importanti e vanno riconosciuti annualmente; quelli per il singolo individuo saranno più accessibili e al solo pensare viene facile sospettare che si tratti di una ulteriore tassa da aggiungere al carico di quelle che dobbiamo sostenere. Credo che a qualche lettore verrà in mente la questione della ISO 9001.
CARBON NEUTRALITY E WATER NEUTRALITY: IL SOLITO CANE CHE SI MORDE LA CODA?
Oltre ai concetti su citati ecco comparire altri termini misteriosi dall’aria molto ecologica ma dal contenuto subdolo…
Davvero è possibile azzerare l’impatto ambientale? Secondo le aziende certificatrici sì: ricordo che per queste aziende offrire il marchio footprint rappresenta una fonte di guadagno. Questo va considerato!
Con carbon neutrality si intende il raggiungimento della neutralità carbonica, ovvero il bilanciamento delle emissioni di CO2 con attività che rimuovono una quantità equivalente di CO2 dall’atmosfera, come la riforestazione o l’adozione di tecnologie di cattura del carbonio. Un’altra strategia è l’acquisto di crediti di carbonio per compensare le emissioni inevitabili. Le aziende possono anche investire in energie rinnovabili e migliorare l’efficienza energetica per ridurre al minimo le emissioni.
In maniera simile, la neutralità idrica implica che un’azienda utilizzi tanta acqua quanta ne restituisce all’ambiente, in termini di quantità e qualità. Questo può essere raggiunto attraverso la riduzione del consumo idrico, il trattamento e il riciclo delle acque reflue, e progetti di conservazione dell’acqua. Le aziende possono anche compensare il loro consumo idrico investendo in progetti che migliorano l’accesso all’acqua e la qualità delle risorse idriche nelle comunità in cui operano.
Leggendo questa descrizione sembrerebbe tutto meraviglioso, ma elenco qui di seguito quali sono le fonti di energia rinnovabile:
- energia solare;
- energia eolica;
- energia idroelettrica;
- energia geotermica;
- energia delle biomasse;
- energia marina.
Anche dopo aver letto i termini in elenco pare tutto così innocuo. Ragioniamo insieme: per creare energia eolica bisogna utilizzare un terreno che viene strappato all’agricoltura o espropriato ai possessori. Lo stesso avviene per le piantagioni di pannelli solari che, volendola dire tutta, non si sa bene come smaltiremo in un prossimo futuro: l’obsolescenza programmata è una realtà che dobbiamo guardare in faccia!
Se dovesse venirmi il prurito di specificare in cosa consistono le biomasse l’articolo diventerebbe un libro a sé e temo che andare fuori tema sia sconveniente soprattutto per me.
Credo sia bene che mi fermi qui ricordando che informarsi è un dovere e un diritto. Solo in questo modo possiamo prendere parte al movimento ecologico che articola anche le nostre scelte alimentari.
Intanto potremmo partecipare al problema piantando un albero, anche uno piccolo piccolo da tenere sul balcone… Usando il buon senso possiamo concorrere a migliorare la situazione usando la lezione del colibrì e del leone citata da Andrea Camilleri (ascolta con attenzione dal minuto 1,16).