Il pregevole romanzo del cremonese Garozzo (1982) può essere emblematico di molte tendenze in voga nella narrativa italiana attuale.
Per certi versi sembra quasi configurarsi come una riuscita applicazione di motivi e profili oggigiorno dibattuti nelle scuole di creative writing, del resto strettamente connessi con tematiche ispirative ben sintonizzate con il mondo postmoderno, tecnoliquido e via discorrendo.
Il binomio di protagonisti, tra loro diversissimi eppure complementari (quasi uno yin e yang di gioco degli opposti), forma un’alleanza che è l’unico asse valoriale positivo in un mondo di falsità, crimini impuniti, disfunzionalità familiari (secondo una visione ossequiosa ai dettami dell’èra del male globalizzato).
In direzione opposta a questa deriva va la ricerca introspettiva del personaggio principale, forse non casualmente riprodotta in corsivo a demarcare una direzione di percorso opposta – cronologicamente ma non solo – rispetto al disastro narrato nel racconto principale: il tentativo di indagare, con movenze che si sarebbe tentati di definire quasi psicoanalitiche, le origini dell’indifferentismo solo all’apparenza vincente del protagonista, è una strategia di resistenza tesa a intercettare le origini di un nodo profondamente irrisolto che lo ha portato ad un’anaffettività ai limiti della sociopatia.
E’ infatti una profonda solitudine da “numeri primi” che anima le gesta erotiche e manesche del fusto seduttore al centro della vicenda. L’agio solo fittizio in cui questo fragile maschio alfa agisce in un contesto frutto di cinico utilitarismo (quello stesso di cui si sente vittima fin dall’infanzia) lo porta a un doppio paradosso solo apparente (poiché compensatorio), ovvero quello di interagire significativamente solo con chi è profondamente diverso da lui, e di trovare affinità elettive in soluzioni estreme, quali la sfida alla vita ad alta velocità in compagnia di un’amante effimera: sentimento che s’indovina invece assai meno negli amplessi che colleziona in serie (attraverso i quali semmai si controbilancia l’assenza della figura materna).
Anche sul piano della forma “Hallelujah” mantiene un ritmo sincopato il quale – nella sua potenziale multimedialità, com’è tipico di tanta produzione narrativa odierna – ben armonizza le varie componenti testuali, che includono anche alcuni raccontini di stampo gnomico del coprotagonista.
Il dinamismo dell’insieme ben assorbe anche le non poche considerazioni di carattere teorico interpolate al racconto, a dimostrazione di un voler accompagnare lo show don’t tell – la nuda concatenazione dei fatti pregna di significati simbolici – con argomentazioni e riflessioni.
E’ del resto attraverso esse che si sottolinea il tormento di questa “chasse au bonheur” del terzo millennio: senonché mentre Stendhal (cui la formula appena riportata è spesso associata) e gli eroi ottocenteschi – ma anche, almeno fino a una certa soglia temporale, quelli novecenteschi – svolgevano le loro peripezie secondo determinati parametri, gli eroi di Garozzo e di tanti suoi colleghi più o meno coetanei agiscono pressati de precise s-coordinate (ossimoro voluto): ciò non toglie che alla fine, comunque, la felicità sia ancora possibile.
Alberto Raffaelli
Il libro:
Lorenzo Garozzo, “Hallelujah”, Bologna-Napoli, Caracò Editore, 2022