Dopo lo scoppiettante “Proprietà degenerative della materia e altre catastrofi” nel suo secondo romanzo Genovese inscena un gioco di master and servant, scritto in prima persona da quest’ultimo.
Il meccanismo perverso del titolo è quello che connota il rapporto tra il padrone Sir Herbert (H) e il servo Theo Doherty, le cui continue simulazioni e dissimulazioni animano un gioco ambientato nella contemporaneità ma nel quale si riflette l’eco atemporale di un sistema pancronico di dominio/oppressione che a modi brutalmente cinici alterna momenti di ipocrita nonchalance.
A esso si contrappone una subalternità scaltra e reattiva (chi sta sotto è decisamente più “smart” di chi comanda, corrotto da atavico materialismo vanesio) che cerca di adattarsi e trovare un “modus sopravvivendi” cortigiano: la grande casa è una piccola corte dove in fondo si rinnovano i meccanismi di autoconservazione machiavellici descritti in una foltissima e quasi del tutto dimenticata trattatistica specie cinque e seicentesca (i lettori più eruditi potranno ricordare i vari Baldassarre Castiglione, Torquato Accetto e tanti altri).
In un romanzo la cui filigrana ideologica denuncia la narcosi della coscienza da parte dei “colonizzatori” e lo sfruttamento dei forti sui deboli – condotto magari in forme più glamour rispetto a quelle più letteralmente schiavistiche di un tempo –, culmine di depravazione è non casualmente una festa, baccanale sadiano minuziosamente descritto nel suo andamento tra “Satyricon” e “Eyes Wide Shut”, che si pone come apoteosi spettacolare di una società le cui istanze primarie sono egolatria e sfoggio gratuito.
Ma a rendere maggiormente sapidi i contenuti è la loro veicolazione formale, articolata in una maniera scrittoria affatto scontata: a cominciare dal destinatario cui Doherty si rivolge, un giudice in cui s’incarna la figura del lettore ideale (evocando perciò un risvolto quasi metanarrativo).
Pur se qui solo accennabile, altro concetto della critica letteraria che fa quantomeno capolino nel testo è la pluralità di voci e di sensi: talune affermazioni di H agli ospiti mascherati della festa vengono decifrate dal servo, esegeta in grado di capire il vero significato delle parole del suo padrone evidenziando in tal modo la divaricazione tra la parola esprimente il pensiero del personaggio e quella indicativa dell’opinione dell’autore.
A ciò si aggiungano i riferimenti a Umberto Eco: i disegni planimetrici richiamano “Il nome della rosa”, l’orologio dal ruolo strategico “Il pendolo di Foucault”.
In definitiva “Un meccanismo perverso”, anche grazie a questi preziosismi strutturali, si configura come convincente allegoria – oggigiorno neanche troppo consueta nella sua schietta preponderanza tematica – delle relazioni di supremazia e sopraffazione.
La lucida ironia concettuale e stilistica con cui Genovese – confermandosi tra le penne italiane più brillanti in circolazione – ripercorre il rapporto tra detentori del potere e massa illumina il romanzo di un disincantato moralismo anche politico però mai invadente, il cui senso ultimo è ben suggellato dalla frase conclusiva: “fin quando ci saranno servi come me, esisteranno padroni come H”.
Alberto Raffaelli
Il libro:
Alessandro Genovese, “Un meccanismo perverso”, Vercelli, Edizioni Effetto, 2024