Dal principio alla fine dell’evo antico, poco o nulla muta nel modo di giudicare l’artista in confronto al poeta. A quest’ultimo di quando in quando si tributano speciali onori: è ritenuto un veggente, un profeta, un dispensatore di gloria e un interprete di miti; l’artista, invece, è e rimane un “esecutore”, uno che fa il lavoro ripetitivo, meccanico, servile, a cui nulla è dovuto oltre il salario.
A creare questa differenza concorrono diverse cause: anzitutto l’artista viene pagato e non se ne fa mistero, mentre il poeta, anche al tempo della sua peggiore soggezione, è considerato ospite e amico del suo sostenitore; inoltre, il lavoro del pittore e dello scultore sporca le mani, e sporchi sono i materiali e gli arnesi ch’essi debbano usare, mentre il poeta ha le vesti e le mani pulite, e questo, per un’epoca non ancor dominata dalla tecnica, ha maggior peso di quanto si possa immaginare, ma, soprattutto, l’artista deve fare un lavoro manuale e sottoporsi a un compito faticoso, a uno sforzo fisico, mentre la fatica del poeta non dà nell’occhio a nessuno. La scarsa considerazione verso chi deve lavorare per vivere, il disprezzo di ogni attività remunerata e in generale di ogni lavoro produttivo, nasce dal fatto che ogni attività di questo genere, in contrasto con le occupazioni signorili del governo, della guerra e della palestra, sa di sottomissione, servizio e obbedienza, Nell’epoca in cui agricoltura e allevamento, oramai pienamente sviluppati, sono affidati alla donna, la guerra diventa l’occupazione principale dell’uomo, e la caccia il suo principale svago. Entrambe richiedono forza ed esercizio, ardire e destrezza, e sono quindi onorevolissime; mentre ogni lavoro minuto, paziente, estenuante passa per un segno di debolezza, ed è quindi spregevole.

L’antichità classica perviene a risolvere l’intima contraddizione fra il disprezzo del lavoro manuale e l’alta valutazione dell’arte come strumento di culto e di propaganda, separando l’opera dalla persona dell’artista, cioè onorandola pur disprezzandone l’autore.
Nell’Atene classica la posizione economica e sociale di scultori e pittori è pressoché la stessa, si continua a considerare l’arte come pura abilità manuale, e l’artista come un comune operaio, che non ha nulla che fare coi valori spirituali più elevati, con la scienza e con la cultura.
Egli, l’artista, è pur sempre mal pagato, senza sede fissa, e fa la vita instabile dei vagabondi, quasi senza diritti nella città che gli dà lavoro.
In Grecia lo stato cittadino è, e rimane, il solo grande committente di opere d’arte; non ha quasi concorrenti, poiché non c’è privato che, per i costi relativamente alti dei prodotti artistici, gli si possa opporre o affiancare. Fra gli artisti, invece, c’è una accanita competizione, che non è minimamente compensata dalla gara fra le città; un mercato libero (che potrebbe valorizzarli) non sussiste né all’interno delle singole città, né nella loro competizione reciproca.
Il mutamento nella condizione dell’artista, che si osserva al tempo di Alessandro il Grande, è in stretto rapporto con la propaganda messa in opera per il conquistatore.
Il culto dell’individuo, che si sviluppa dal nuovo culto degli eroi, torna a favore dell’artista, che dispensa la gloria e la riceve. Le esigenze delle corti dei successori di Carlo Magno (Diadochi) e la ricchezza che si accumula nelle mani dei privati aumentano la richiesta, e quindi il pregio dell’arte e la considerazione in cui è tenuto l’artista.
La cultura filosofica e letteraria penetra anche nella cerchia degli artisti; essi cominciano a emanciparsi dall’artigianato e a formare un ceto a sé di fronte ai lavoratori manuali.
I ricordi e gli aneddoti tratti dalla vita degli artisti mostrano benissimo il grande mutamento dell’epoca classica. Il pittore Parrasio, per esempio, firmando le sue opere, dà prova di un’arroganza inconcepibile ancora poco tempo prima. Zeusi, la cui fama ispirò anche gli artisti del Rinascimento, si acquista, con la propria arte, una ricchezza quale nessun artista aveva mai posseduto. Apelle, il più grande dei pittori greci, non è soltanto il pittore di corte, ma anche l’amico di Alessandro il Grande. Cominciano piano piano, a correre storielle sull’eccentricità di pittori e scultori, e l’artista appare un essere carismatico, ossesso, avvolto dai misteri com’era stato al tempo della magia dove ha momenti creativi che ispirano le opere che lui compie.
Ciò spiega così, un atteggiamento contrastante verso l’artista proprio in epoche più tarde, soprattutto dell’impero romano e della tarda antichità, dove il popolo bellicoso di contadini, che dominava Roma, nonostante la sua famigliarità col lavoro, è tutt’altro che ben disposto verso l’arte e gli artisti.
Solo con la trasformazione della civiltà attraverso l’economia monetaria e urbana, e con l’influsso greco, comincia a mutare l’importanza sociale del poeta, e poi, a poco a poco, anche quella dell’artista. Ma solo nell’età augustea il mutamento diviene più sensibile e si manifesta da un lato nella figura del “vate”, dall’altro nell’ampiezza e nella forma assunta dal mecenatismo privato accanto a quello di corte.
Tuttavia l’arte continua a essere apprezzata meno della poesia. Durante l’impero, i pittori dilettanti diventano sempre più numerosi fra i patrizi, e la moda trova seguaci persino tra gli imperatori come Nerone, Adriano, Marco Aurelio, tutti dipingevano. Ma la scultura, forse perché più faticosa, e per le più complesse esigenze tecniche, continua a essere considerata un’attività volgare.
Anche la pittura è considerata un’occupazione rispettabile solo quando non viene esercitata per denaro. Pittori oramai celebri non si fanno più pagare i loro lavori.
L’equiparazione del poeta con lo scultore è un tratto assolutamente estraneo alla classicità, e nostra l’incoerenza del tardo Impero di fronte a tutti questi problemi.
Il poeta condivide la sorte dello scultore, perché anch’egli è soltanto uno specialista e segue le regole precise di una dottrina, che traduce l’ispirazione divina in una tecnica razionale.
Il riconoscimento della personalità artistica, nella misura in cui traspare è evidente in rapporto con l’estetismo imperiale, e indirettamente forse anche con dottrine filosofiche affini; ma la simultanea condanna dell’artista, una voce che non si spegne mai accanto all’altre, prova che l’antichità, anche nell’epoca più tarda, rimane legata alla concezione preistorica che fa considerare il prestigio nell’ozio ostentativo, e nonostante la sua cultura estetica, è semplicemente incapace di concepire un’idea come quella del genio, propria del Rinascimento e dell’età moderna. Poiché solo con questo concetto diventa indifferente in quale forma e con quali mezzi si esprima la personalità, purché riesca a esprimersi, o anche solo ad accennare ciò che non riesce a esprimere.
Maestra d’Arte Monica Isabella Bonaventura
