Ciao Simona, benvenuta e grazie per aver accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori? Chi è Simona?
Simona è regista, autrice teatrale, docente di teatro, attrice, teatroterapeuta e coreografa.
Chi è invece Simona Donna nella sua quotidianità, al di fuori del lavoro e della sua passione per il teatro, la scrittura e l’arte in generale? Cosa puoi raccontarci di te?
Penso che non ci sia differenza tra Simona artista e Simona nella sua quotidianità (ovvero madre, moglie, figlia, sorella, insegnante, attrice, ecc..). Tra il lavoro e la mia vita privata c’è un filo sottilissimo. So benissimo che è sbagliato, perché bisogna distinguere le cose per evitare di cadere nel turbine dello stress, ma a me piace pensare che la mia vita sia un tutt’uno con il lavoro che ho scelto di fare. Ovviamente è un tutt’uno unilaterale perché porto piacevolmente il lavoro nella vita privata, ma difficilmente la mia vita privata nel lavoro. Custodisco gelosamente la mia sfera personale/familiare e difficilmente mi racconto a livello privato, ma oggi con voi ho deciso di farlo.
Qual è il tuo percorso accademico, formativo, professionale ed esperienziale che hai seguito e che ti ha portato a fare quello che fai oggi, vestendo i panni della regista, autrice teatrale e coreografa?
Mi sono laureata in Lettere moderne, vecchio ordinamento, con indirizzo Discipline dello Spettacolo presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2003, con una tesi sul Teatro e lo Spettacolo a Palermo tra il XVII e XVIII secolo. Durante il mio periodo di permanenza a Roma, ho partecipato a gruppi di ricerca di teatro sperimentale e ho frequentato stimolanti e interessanti workshop e laboratori teatrali condotti da attori e registi noti come Gigi Proietti, Michele Placido e altri attori meno noti, che hanno arricchito il mio bagaglio formativo.
È stato importante e formativo/esperienziale il periodo trascorso a Palermo con i laboratori teatrali di Giuditta Lelio e, successivamente, con la compagnia “I Tespiadi”, capitanata dal Maestro Enzo Pipi. Attraverso il suo esempio, il maestro Pipi, mi ha insegnato l’amore e la dedizione per il teatro. Ricordo ancora quando andò in scena con due costole rotte pur di non far saltare la prima de Il Paraninfo (L. Capuana) presso il Teatro Ranchibile. Dopo la morte di Enzo Pipi, mi sono dedicata al teatro di ricerca, alla scrittura e alla direzione di piccole compagnie.
Colui che mi ha donato la vera essenza dell’arte teatrale e una formazione umana, oltre che artistica, è stato il maestro Pino Caruso, che, attraverso aneddoti ed esperienze di vita quotidiana, mi ha insegnato l’arte di emozionarmi ed emozionare. Penso che un maestro e un allievo si scelgano: è un legame che non accade per caso. Sicuramente il suo vissuto umile e la sua semplicità sono stati un esempio di un buon percorso artistico, costruito sullo studio e sulla lealtà, senza compromessi e favoritismi.
Lui mi diceva sempre: “Simonetta (così mi chiamava), studia e persevera, che il talento ‘prima o poi’ viene notato… a volte prima, a volte poi. Meglio poi che mai.”
Dopo la laurea, ho conseguito una seconda laurea in teatroterapia, perché credo nel valore terapeutico dell’arte. Successivamente sono diventata docente formatrice del Centro Italiano Formazione Europea, settore cinema e teatro.
La danza è stata il mio primo amore, la prima forma d’arte a cui mi sono approcciata. La mia formazione è avvenuta a Siracusa, la mia città natale, per poi proseguire, prima del diploma, tra Roma e Milano. La mia danza si ispira a Pina Bausch e al suo inconfondibile modo di comunicare attraverso il corpo, alla libertà di movimento e alla capacità di esprimere emozioni e disagi tramite il corpo. Le mie coreografie raccontano con il corpo e denunciano spaccati della società (bullismo, immigrazione, violenza sulle donne, spose bambine, diritti dell’infanzia.
Come nasce la tua passione per la scrittura e per il teatro? Chi sono stati i tuoi maestri e quali gli autori e i registi che, da questo punto di vista, ti hanno segnato e insegnato ad amare il teatro, i libri, le storie da scrivere e raccontare, la lettura, la scrittura e l’arte nelle sue varie forme espressive?
La passione per il teatro e l’arte in generale è nata con me; non è una cosa che è venuta dopo, è insita in me. Da piccola non ho mai giocato con bambole o con i giochi delle bambine. Io giocavo con i giradischi, cambiando i vari dischi in vinile, danzando e registrando la mia voce con il mangianastri. Ricordo perfettamente, come se fosse oggi, il primo proiettore 16 mm che acquistò mio padre. Era il 1981 e rimasi incantata da quel fascio di luce che proiettava immagini sul muro; da quel momento imparai a memoria tutte le parti dei film di Ornella Muti e trovai subito geniale Carlo Verdone.
A proposito del modo di giocare della mia infanzia, mi collego a una frase di colui che è stato il mio grande maestro di teatro, ma anche di vita, come accennavo nella risposta precedente: Pino Caruso. Lui mi diceva: “C’è sempre, nella nostra infanzia, qualche segno dell’attività a cui ci dedicheremo da grandi. O almeno così ci sembra.” Mi raccontò un aneddoto: si trovava a scuola, avrà avuto circa 9 anni, quando la maestra chiese alla classe chi sapesse in che anno Giulio Cesare varcò il Rubicone. Nessuno rispose, lui alzò la mano spinto da un impulso di protagonismo, ma fece scena muta. Tuttavia, alla sua vanità era bastato quell’attimo di stupore da parte della maestra e dei compagni.
Pino Caruso mi ha insegnato l’arte rara dell’umiltà, la passione e la curiosità per l’essere umano in tutte le sue complicate sfaccettature. Mi ha insegnato a navigare nel mare tempestoso dell’arte, e la sua scomparsa fu per me una grande perdita umana, oltre che professionale.
Ci parli dei tuoi lavori teatrali e dei tuoi scritti? Quali sono, come nascono, qual è l’ispirazione che li ha generati e quale il messaggio che vuoi che arrivi al lettore o allo spettatore?
Parto dal presupposto che io scrivo per esigenza: la mia drammaturgia nasce spontaneamente, ad esempio da una scena vista per strada, da un profumo, da uno sguardo, da una stretta di mano… Quindi direi che nasce per caso. Non scrivo su commissione, mi sentirei snaturata, ma penso che questo capiti a tutti coloro che fanno questo lavoro (sottolineo lavoro). I miei lavori teatrali, ma anche coreografici, hanno sempre una finalità educativa o pedagogica perché credo fermamente nel potere educativo dell’arte in generale. Pertanto, anche nei lavori teatrali più comici, lo spettatore andrà via dal teatro con uno spunto di riflessione.
Tanti gli argomenti sociali trattati: bullismo, violenza sulle donne, omofobia, immigrazione, disabilità, clochard, dipendenze dal gioco, legalità, spose bambine, diritti delle donne nel mondo, ecc. Ad oggi, vanto di aver scritto e diretto 38 spettacoli teatrali, diretto 6 lungometraggi, 3 spot e 5 videoclip.
Una domanda difficile, Simona: perché i nostri lettori dovrebbero vedere le tue opere e comprare i tuoi libri? Prova a incuriosirli affinché vadano a teatro o sui canali streaming per vedere le tue opere, oppure in libreria o nei portali online per acquistare i tuoi libri.
Perché sono veri. I miei lavori profumano di spontaneità, la chiave d’accesso è universale, ogni mio lavoro è facilmente fruibile tanto da un bambino quanto da un anziano.
Il mio penultimo lavoro, Il trenino di latta (i miei lavori drammaturgici per me sono come figli perché nascono da un lungo travaglio interiore e hanno sempre un pizzico di me), mi sta particolarmente a cuore per due motivi. Il primo è che, a differenza degli altri lavori, ho deciso di pubblicarlo prima di rappresentarlo: la sua stesura è avvenuta nel triste periodo della pandemia, e per renderlo fruibile a tutti, dato che in quel periodo i teatri erano chiusi, ho pensato di scrivere una drammaturgia principalmente per essere letta e poi rappresentata. Quindi per me rappresenta un po’ la luce in quel triste e anomalo periodo, poiché mi rifugiavo nella scrittura per entrare nel mio mondo protetto, un mondo immaginario fatto di emozioni e creatività.
Il secondo motivo è che, dopo 11 anni, attraverso Il trenino di latta, sono tornata in scena come attrice con la regia del grande Pietro De Silva. Sono felice di essere stata diretta da un artista di fama nazionale come lui. Basta ricordare il film Premio Oscar La vita è bella di Roberto Benigni, in cui lui è coprotagonista in questo magnifico capolavoro. Il suo apprezzamento per Il trenino di latta è stato per me uno stimolo in più per continuare a credere in ciò che faccio.
La sua geniale regia e la sua incommensurabile esperienza di attore sono stati per me una bella scuola formativa; ho arricchito il mio bagaglio artistico, ma soprattutto umano, perché Pietro è principalmente una bella persona, oltre ad essere un grande professionista.
Perché 11 lunghi anni di pausa dalle scene come attrice?
In questi lunghi 11 anni mi sono dedicata alla crescita della mia accademia, all’insegnamento della recitazione e alla regia, ma soprattutto a mio figlio Andrea. Andare in scena richiede un grande sacrificio sia a livello di tempo che di energie, ed essendo consapevole di ciò, ho preferito dedicarmi allo spettacolo più bello che la vita mi abbia regalato, ovvero mio figlio. I figli sono un dono, hanno la capacità di spostare il baricentro, tolgono l’attenzione da te stessa. Un figlio ti insegna la grande capacità che ogni essere umano ha di donarsi senza ricevere nulla in cambio: una grande lezione di umiltà.
Dopo la nascita di Andrea è cambiato il mio modo di vedere le cose e, sicuramente, per riflesso, il mio modo di vivere il palcoscenico. La mia ovviamente non è stata una rinuncia, ma una “scelta” che mi ha reso felice. Adesso che lui è più grandicello, anche lui un piccolo artista (fa parte del coro di voci bianche del Teatro Massimo di Palermo, studia pianoforte e clarinetto), ho deciso che questo è il momento giusto per riprendere da dove ho lasciato, ovviamente ripartendo con una marcia in più.
«Appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se dovevo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo.» (Giovanni Falcone “Cose di cosa nostra” VII ed. Rizzoli libri spa, Milano 2016, p. 25 | I edizione 1991). Tu a quale categoria di persone appartieni, volendo rimanere nelle parole di Giovanni Falcone? Sei una persona che punta un obiettivo e cerca in tutti i modi di raggiungerlo con determinazione e impegno oppure pensi che conti molto il fato e la fortuna per avere successo nella vita e nelle cose che si fanno, al di là dei talenti posseduti e dell’impegno che mettiamo in ciò che facciamo?
Ti racconto un aneddoto che riguarda una parte della mia vita e che trasversalmente risponderà alla tua domanda. Undici anni fa ho deciso di lasciare il mio posto fisso, il famoso colpo di testa, per inseguire il mio piccolo sogno: aprire un’accademia di spettacolo che comprendesse tutte le arti sceniche e che desse spazio anche alle persone speciali. Tu dirai: “Ok, fattibile!” Certo, ti rispondo. Ma il problema era uno: non avevo una sufficiente disponibilità economica per creare di sana pianta il mio progetto e dovevo ripartire da zero. Ma tutto ciò non mi ostacolava.
Ho cercato un posto favorevole per aprire la mia creatura, e lo trovai come lo volevo. Ho messo in atto tutta la mia creatività per creare un ambiente accogliente, utilizzando materiale di riciclo o arredamento donato da amici cari (le porte di colore blu, ad esempio, sono porte di un ex hotel, la scrivania e i mobili dell’ufficio mi furono donati da una mia cara amica). Contro tutto e tutti e con tanti sacrifici, ho iniziato a costruire un centro artistico dove le differenze vengono annullate e dove l’accoglienza regna sovrana. Insomma, un posto magico. Oggi il mio piccolo mondo ha 11 anni di vita, e con la forza dell’amore è rimasto in piedi nonostante tutte le avversità del periodo storico (Covid, crisi economica e sociale). Oggi è diventato strepitosamente perfetto: una sala danza, due sale musica, un piccolo teatrino di 40 posti dedicato a Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che vanta al suo interno il primo pianoforte di studio usato da Franco Franchi, donato con affetto e stima dai figli del famoso artista alla Piccola Accademia dei Talenti. Insomma, come diceva Walt Disney: “Se puoi sognarlo, puoi farlo.” Ed io amo sognare in grande.
«… mi sono trovato più volte a riflettere sul concetto di bellezza e mi sono accorto che potrei benissimo (…) ripetere quanto rispondeva Agostino alla domanda su cosa fosse il tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.”» (Umberto Eco “La bellezza” GEDI gruppo editoriale ed. 2021, pp. 5-6). Per te cos’è la bellezza? Prova a definire la bellezza dal tuo punto di vista. Come si fa a riconoscere la bellezza nel teatro, nella scrittura, nell’arte, nella vita secondo te?
Per quanto riguarda il concetto di bellezza, mi associo al pensiero di Pericle e Platone, che definivano la bellezza, kalòs, come un inseparabile trinomio tra bello, vero e buono, legando la bellezza a valori interiori e morali, ad un’elevazione dello spirito. Quindi, bellezza che dona soddisfazione abbracciando tutti i cinque sensi e che non si limita a compiacere la sfera fisica, ma invade anche la nostra anima. Comunicare bellezza è il compito primario di ogni arte, e la bellezza si riconosce quando l’opera suscita emozioni, coinvolgendo tutti i sensi.
«Io vivo in una specie di fornace di affetti, amori, desideri, invenzioni, creazioni, attività e sogni. Non posso descrivere la mia vita in base ai fatti perché l’estasi non risiede nei fatti, in quello che succede o in quello che faccio, ma in ciò che viene suscitato in me e in ciò che viene creato grazie a tutto questo… Quello che voglio dire è che vivo una realtà al tempo stesso fisica e metafisica…» (Anaïs Nin “Fuoco” in “Diari d’amore” terzo volume 1986). Cosa pensi di queste parole della grandissima scrittrice Anaïs Nin? E quanto l’amore e i sentimenti così poderosi sono importanti per te e incidono nella tua arte?
Io sono una donna che vive e si alimenta grazie alle emozioni… Mi piace la mia capacità di emozionarmi alla vista delle semplici cose, come due anziani innamorati che passeggiano mano nella mano, un bambino che accarezza un cane, un nuovo frutto che spunta su un albero. Insomma, mi piace cogliere le piccole cose semplici, ed è dall’attenzione a questi piccoli particolari che nascono le mie opere.
Penso che l’amore, e per riflesso i sentimenti, siano il motore della creatività. La creatività nasce e viene mossa da un sentimento. Nella fase di piattezza sentimentale, l’artista non crea. Anzi, soffre perché non riesce a generare bellezza. Le mie opere teatrali sono nate tutte spontaneamente a seguito di un sentimento, bello o brutto, percepito nella quotidianità. Anche uno sguardo che trasmette emozioni, per me, diventa motore della creatività e spunto di scrittura o per realizzare prodotti audiovisivi.
Per concludere: non c’è arte senza amore e sentimenti.
Charles Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, in una bella intervista del 1967 disse: «A cosa serve l’Arte se non ad aiutare gli uomini a vivere?» (Intervista a Michael Perkins, Charles Bukowski: the Angry Poet, “In New York”, New York vol. 1, n. 17, 1967, pp. 15-18). Tu cosa ne pensi in proposito? Secondo te a cosa serve l’Arte della recitazione, del teatro, ma anche della narrazione, del raccontare, dello scrivere?
Innanzitutto non oso immaginare un mondo senza arte (musica, teatro, pittura, ecc.). Per me l’arte, in generale, è “salvifica” sia per chi la fa, sia per chi la assiste. L’arte ci permette di creare rifugi sognanti dove poter esprimere la nostra vera essenza. Dal punto di vista di docente di recitazione e teatroterapeuta, penso che il teatro sia un’ottima scuola di empatia, l’arte di riuscire a immedesimarsi nei panni degli altri, oltre a riconoscere e gestire le proprie emozioni e migliorare, per riflesso, l’autostima. Continuo a sostenere l’idea di fare teatro nelle scuole come attività curriculare.
«Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa piacere così come sei! Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore, la vita è come un’opera di teatro ma non ha prove iniziali: canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera finisca priva di applausi.» Fu Charlie Chaplin (1889-1977) a dire queste parole. Tu cosa ne pensi?
Riassumo la risposta con un motto che mi fa vivere bene: “Non si può piacere a tutti”! Ovviamente, per essere consapevoli e credere in questa frase, bisogna avere una grande dote di autostima, che io ho acquisito in questi lunghi anni di esperienza. Prima ero molto suscettibile al giudizio degli altri: se una mia regia, opera teatrale o performance non piaceva, non riuscivo ad accettarlo, lo vedevo come una sorta di sconfitta personale perché il mio obiettivo era quello di ottenere il consenso dal maggior numero di persone possibile. Con il tempo e l’esperienza, ho capito che, come disse Giulio Cesare: “De gustibus non disputandum est”, ovvero sui gusti non si può discutere. Ovviamente il gusto e la qualità sono due cose diverse. I miei lavori possono anche non piacere, ma cerco di rispettare sempre il principio della qualità.
«Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… I casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16). Secondo te, perché un romanzo, un libro o una raccolta di poesie abbiano successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (il linguaggio utilizzato, più o meno originale, armonico, musicale, accattivante per chi legge), volendo rimanere nel concetto di Bukowski?
Sono d’accordo con Bukowski: io scrivo e basta, funzionano o non funzionano. Scrivo principalmente per una mia esigenza, poi ovviamente la condivisione con il pubblico permette alla drammaturgia di prendere vita. Una cosa a cui tengo molto è seguire la linea della qualità: mi piace gustarmi la creazione passo dopo passo. Le storie vivono dentro di me per molto tempo, nascono da un lungo travaglio immaginativo ma anche sensoriale; a volte impiego mesi, altre volte pure anni.
Mi piace dire cose profonde in modo semplice, con un linguaggio accessibile a tutti. Le storie, le emozioni e i sentimenti si possono raccontare anche con i silenzi: non credo ci sia bisogno necessariamente di un linguaggio forbito per arrivare al cuore delle persone. Le parole semplici sono quelle più dirette e funzionali. Il vero test, per noi artisti, è il pubblico: quando rimane inchiodato alla poltrona, silenzioso e attento, con gli occhi sgranati per non perdersi neanche un minimo dettaglio sul palco, allora possiamo dire di aver raggiunto l’obiettivo. E, per citare Bukowski: “Il genio è un uomo capace di dire cose profonde in modo semplice”.
Per te cos’è, emotivamente, salire sul palco di un teatro o mettere in scena un’opera teatrale? Come vivi questa dimensione artistica?
Salire su un palco, per me, significa mostrare la mia autenticità. Essere autentici significa entrare in contatto con la parte più vera di sé, significa non avere più bisogno di nascondere a se stessi le proprie fragilità e non avere più bisogno di indossare maschere. Ci sono voluti tanti anni per arrivare a un consapevole stato di parziale autenticità.
Il teatro mi ha salvato da un periodo buio: il 1995 è stato per me l’anno dei bruschi cambiamenti, la separazione dei miei genitori, il cambio di città per intraprendere gli studi universitari, delusioni amorose e vicissitudini varie. Quindi distacchi, abbandoni e delusioni, tutto in un breve periodo. Ma la mia ancora di salvezza è stata il teatro. Attraverso i personaggi che portavo in vita, mi sono riscoperta un po’ Mirandolina, un po’ Giulietta, un po’ Medea, un po’ Prassagora, e addirittura anche un po’ Otello e un po’ Pinocchio. Insomma, un lungo training che mi ha permesso di sciogliere alcuni nodi. Dico alcuni, perché la lotta e la ricerca della mia autenticità non è ancora terminata.
Penso che alla fine ogni artista sia alla continua ricerca della propria autenticità, e forse è proprio questa bizzarra ricerca che ci rende piacevolmente folli. Il teatro e il palco sono un’ottima palestra di autenticità: guai a restarne senza. Ricordo che avevo circa 5 anni quando andai con mio padre al teatro Vasquez di Siracusa per assistere a uno spettacolo. Non ricordo il nome o il contenuto, ma ricordo perfettamente di essere rimasta colpita dall’allestimento scenico, dalle luci, dai costumi e dalla forte presenza scenica degli attori, e soprattutto da un odore particolare che riempiva la sala, un odore che non avevo mai sentito prima. Ora quell’odore ha per me una collocazione, un’emozione e un’importanza: è l’inequivocabile odore di teatro. Quella sera, a soli 5 anni, capii cosa volevo… stare su un palco! Sono passati 43 anni, e quella scelta è diventata il mio unico punto fermo.
Se per un momento dovessi pensare alle persone che ti hanno dato una mano, che ti hanno aiutato significativamente nella tua vita artistica e umana, soprattutto nei momenti di difficoltà e di insicurezza che hai vissuto, chi sono state quelle persone determinanti per le tue scelte professionali e di vita, portandoti a prendere quelle decisioni che ti hanno condotto dove sei oggi, a realizzare i tuoi sogni? Chi sono queste persone che ti senti di ringraziare pubblicamente in questa intervista e perché proprio loro?
Se mi soffermo un attimo e penso a tutta la mia vita come se fosse la pellicola di un film, ti dico che ad oggi mi sento di ringraziare Simona, ovvero me stessa. Tutti gli obiettivi raggiunti sono frutto della mia determinazione. Ho sempre agito con il cuore in ogni decisione presa e non ho mai ascoltato la ragione. Ci sono stati alti e bassi nella mia vita, sicuramente dovuti a scelte sbagliate, ma sono state “le mie scelte” e non quelle di qualcun altro. Ovviamente sono stata circondata sempre da persone che hanno creduto in me e nelle mie idee, e mi hanno lasciato fare. In primis la mia famiglia e, soprattutto, mio marito.
“Ricevere premi internazionali è sicuramente una grande soddisfazione per qualsiasi artista. Lei come vive questi riconoscimenti? Si sente felice e gratificata dal modo in cui il suo lavoro è stato accolto a livello globale?”
Ricevere questi premi è stato per me un onore immenso e una grande fonte di gioia. L’Oscar Awards sulla Creatività, conferitomi dalla Fondazione Costanza lo scorso 19 giugno al Palazzo Butera di Bagheria, è stato un riconoscimento che ha premiato non solo il mio lavoro, ma anche l’originalità e l’impegno che metto in ogni progetto. È stato un momento di grande emozione, circondata da persone che condividono la mia passione per l’arte.
Poi, il 16 settembre, ho avuto il privilegio di ricevere il prestigioso Premio Internazionale Giovanni Paolo II al Palazzo Valentini di Roma. Questo riconoscimento mi ha toccata particolarmente, perché celebra i valori universali e la dedizione, ed essere premiata in questo contesto è stato per me una conferma che l’arte può essere un ponte di connessione tra le persone e un mezzo per ispirare e sensibilizzare.
A cosa stai lavorando in questo momento e cosa puoi dirci dei tuoi lavori letterari e teatrali in corso?
Da poco ho terminato di scrivere una drammaturgia storica dal titolo Il profumo dell’audacia, che racconta la storia, ad oggi poco conosciuta, delle raccoglitrici di gelsomino della Piana di Milazzo, donne che rappresentano in pieno lo spirito combattivo, la forza e l’arte di arrangiarsi tipica di noi donne siciliane. Una storia tutta al femminile ambientata nel 1946.
Due personaggi in scena: Alba, una scrittrice non vedente, e Lorenzo, un giovane speaker radiofonico, che avrà il compito di svelare il segreto che tormenta Alba. Ma chi sono realmente Alba e Lorenzo? A svelarlo sarà un inaspettato finale pirandelliano, che travolgerà lo spettatore dentro le righe di un racconto volutamente incompleto. Una storia di mistero e passione che vive in uno spazio temporale della stessa durata di un fiore di gelsomino, ovvero la notte.
Quali sono i tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti che vuoi condividere con i nostri lettori?
So che la mia nuova drammaturgia vi ha incuriositi… pertanto vi aspetto il 23, 24, 25 maggio 2025 al Teatro Biondo / Sala Strehler con la prima nazionale dell’atto unico “Il Profumo dell’Audacia – Cap IX”.
Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa intervista?
Innanzitutto, ringrazio tutti coloro che sono arrivati fino alla fine: vuol dire che hanno trovato l’intervista interessante. Mi sento di chiudere questa intervista invogliando i lettori a non smettere mai di sognare, e al contempo auguro a tutti di trasformare i sogni in obiettivi. Come diceva Walt Disney, la differenza tra un sogno e un obiettivo è semplicemente una data.
Buon tutto a tutti!